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lunedì 9 ottobre 2017

ERNESTO CHE GUEVARA

Forse fu la prima volta che mi trovai ad affrontare il dilemma se dedicarmi alla medicina o al mio dovere di soldato rivoluzionario. Avevo davanti uno zaino pieno di medicamenti e una cassa di proiettili, pesavano troppo per trasportarle insieme; presi la cassa di proiettili, lasciando lo zaino per attraversare lo spazio che mi separava dalle canne. Ricordo perfettamente Faustino Pérez, in ginocchio lungo il sentiero, che sparava con la sua pistola mitragliatrice. Accanto a me un compagno chiamato Arbentosa camminava verso la piantagione, una raffica, che non si distingueva dalle altre, ci raggiunse entrambi. Sentii un forte colpo al petto e una ferita al collo; mi considerai morto. Arbentosa mentre gli sgorgava sangue dal naso, dalla bocca e dall’enorme ferita della pallottola da quarantacinque, gridò qualcosa come “mi hanno ucciso” e incominciò a sparare come un matto, perché in quel momento non si vedeva nessuno. Dissi a Faustino, da terra: “Mi hanno fregato”(ma con una parola più forte). Faustino mi gettò uno sguardo mentre continuava il suo lavoro e mi disse che non era niente, ma nei suoi occhi si leggeva la condanna che la mia ferita significava. Rimasi disteso, sparai un colpo imitando il compagno ferito. Immediatamente mi misi a pensare alla migliore maniera di morire in quel momento in cui tutto sembrava perduto. Ricordai un vecchio racconto di
Jack London, dove il protagonista, appoggiato ad u tronco d’albero, si dispone a finire la sua vita con dignità, sapendosi condannato a morte per congelamento, nelle zone gelate dell’Alaska. È la sola immagine che ricordo. Qualcuno in ginocchio, gridava che bisognava arrendersi e si udì un’altra voce, che, come seppi dopo, apparteneva a Camillo Cienfuegos, rispondere: “Qui non si arrende nessuno …” e poi una parolaccia. Ponce si avvicinò agitato, respirando affannosamente, mostrando una ferita che sembrava attraversagli il polmone. Mi disse di essere ferito, e gli comunicai, con tutta indifferenza, che lo ero anch’io. Ponce continuò a trascinarsi verso la piantagione, come gli altri compagni illesi. Per un momento rimasi solo, disteso lì, aspettando la morte. Poi lo seguii, nonostante i dolori, ed entrammo nella piantagione. Lì c’era il grande compagno Raùl Suarez, col pollice spezzato da una
pallottola  e Faustino Pérez che glielo bendava presso un tronco. Dopo, tutto si confondeva con i piccoli aerei che
passavano bassi sparando alcuni colpi di mitragliatrice, seminando altra confusione in mezzo a scene a volte dantesche e a volte grottesche, come quella di un corpulento
combattente che voleva nascondersi dietro una canna, e di un altro che chiedeva silenzio in mezzo al fragore tremendo
degli spari, senza sapere bene né come né perché. Si formò
un gruppo guidato da Almeida, nel quale eravamo anche noi, l’attuale comandante Ramiro Valdés, a quell’epoca tenente, i compagni Chao e Benìtez. Con Almeida intesta, attraversammo l’ultimo viottolo della piantagione, per raggiungere la zona di macchia che ci avrebbe salvati. In quel momento si sentirono le prime grida: “Fuoco” nella piantagione, e si levarono colonne di fumo e di fuoco. Ma questo non potrei assicurarlo, perché in quel momento pensavo più all’amarezza della sconfitta e all’imminenza della morte, che a ciò che accadeva nella lotta.

Camminando finché la notte non ci impedì di andare avanti e decidemmo di dormire tutti uniti, ammucchiati, attaccati ai moschetti, attanagliati dalla sete e dalla fame. Questo fu il nostro battesimo del fuoco, il 5 dicembre 1956, nelle vicinanze di Niquero. Questo fu l’inizio di quello che sarebbe stato l’Esercito Ribelle.  

(Tratto da Scritti, discorsi e diari di guerriglia) 

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