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giovedì 29 dicembre 2016

Lo spazio indifendibile

È in corso un’operazione organizzata di normalizzazione dello spazio urbano per imporre un nuovo ordine locale, riflesso di quello mondiale. 
Una delle caratteristiche delle nuove politiche urbane è che lo spazio costruito deve essere riconfigurato a fini più o meno espliciti di difesa sociale: i luoghi pubblici, messi in sicurezza quanto se non più di quelli privati, accolgono oltre a polizia e sistemi tecnologici di vigilanza anche un numero crescente di dispositivi ornamentali a vocazione disciplinare: è la architettura di prevenzione situazionale o spazio difendibile. Questi concetti risalgono alla fine degli anni ‘70 e riflettono l’avanzata del modello neoliberista di accumulazione del capitale fondato su flessibilità del mercato del lavoro e smantellamento del welfare, che ha aggravato la guerra civile condotta contro le classi dominate e lanciato la sfida contro la mancanza di sicurezza. L’obiettivo dichiarato è costruire una forma di urbanità disciplinata, dove al controllo del territorio si aggiunge quello del comportamento dei suoi abitanti, e i governi mondiali e locali adopereranno tutte le armi a loro disposizione. Non solo quelle repressive, d’altronde sempre più sofisticate: uno degli ambiti più importanti è proprio quello della gestione dello spazio e dei flussi di persone che lo attraversano, motivo per cui ad architetti e urbanisti spetterà il compito di progettare o ristrutturare gli ambienti di modo che contribuiscano anch’essi a prevenire l’illegalità. Salvo rimettere in discussione la struttura della società globale, difficilmente la città può tornare a essere comunità. Anzi, continuerà ad accentuarsi la divisione tra ricchi e poveri. 
Il Grande Fratello veglia sui primi e sorveglia i secondi.

L’anarchia in poche parole

Antiautoritarismo
il rifiuto del principio dell'autorità, il rifiuto del comando e dell'essere comandati.
Libertà 
libertà da ogni rapporto di dominazione, sia individuale che sociale; libertà di sviluppare la propria personalità. La libertà altrui che feconda la propria.
Solidarietà 
come strumento per una socialità aperta, senza competizione.
Rifiuto della delega
come strumento di azione diretta, intervento e condivisione responsabile.
Individualismo
come punto di partenza della socialità e quindi fonte di rispetto, salvaguardia e sviluppo delle singole attitudini, diversità, esperienze coerenza tra mezzi e fini come metodologia antiautoritaria.
Autogestione 
come formula organizzativa.
Organizzazione orizzontale 
organizzazione non gerarchica basata sulle diverse capacità ed accordi e non su imposizioni o comandi.
Uguaglianza nella diversità
uguali possibilità di sviluppo delle diversità dei singoli.

NOI CREDIAMO

Noi crediamo che la più gran parte dei mali che affliggono gli uomini dipende dalla cattiva organizzazione sociale, e che gli uomini, volendo e sapendo, possono distruggerli.
La società attuale è il risultato delle lotte secolari che gli uomini han combattuto tra di loro. Non comprendendo i vantaggi che potevano venire a tutti dalla cooperazione e dalla solidarietà, vedendo in ogni altro uomo (salvo al massimo i più vicini per vincoli di sangue) un concorrente ed un nemico, ha cercato di accaparrare, ciascun per sé, la più gran quantità di godimenti possibile, senza curarsi degli interessi degli altri. Data la lotta, naturalmente i più forti, o i più fortunati, dovevano vincere, ed in vario modo sottoporre ed opprimere i vinti.
Tale stato di cose noi vogliamo radicalmente cambiare. E poiché tutti questi mali derivano dalla lotta fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta da ciascuno per conto suo e contro tutti, noi vogliamo rimediarvi sostituendo all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti, alla oppressione ed all’imposizione scientifica la verità.
Quindi diciamo: Abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e degli strumenti di lavoro, perché nessuno abbia il mezzo di vivere sfruttando il lavoro altrui, e tutti, avendo garantiti i mezzi per produrre e vivere, siano veramente indipendenti e possano associarsi agli altri liberamente, per l’interesse comune e conformemente alle proprie simpatie.
Abolizione del governo e di ogni potere che faccia la legge e la imponga agli altri: quindi abolizione di monarchie, repubbliche, parlamenti, eserciti, polizie, magistratura ed ogni qualsiasi istituzione dotata di mezzi coercitivi.
Organizzazione della vita sociale per opera di libere associazioni e federazioni di produttori e di consumatori, fatte e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati dalla scienza e dall’esperienza e liberi da ogni imposizione che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, vinto dal sentimento stesso della necessità ineluttabile, volontariamente, si sottomette.
Garantiti i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli, ed a tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi.
Guerra alle religioni ed a tutte le menzogne, anche se si nascondono sotto il manto della scienza. Istruzione scientifica per tutti e fino ai suoi gradi più elevati.
Guerra alle rivalità ed ai pregiudizi patriottici. Abolizione delle frontiere, fratellanza fra tutti i popoli.
Ricostruzione della famiglia, in quel modo che risulterà dalla pratica dell’amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso.
Questo il nostro ideale.
(Il nostro programma di Errico Malatesta)

giovedì 22 dicembre 2016

Elisée Reclus, educare a essere

Elisée Reclus, ovvero un geografo davvero particolare: sovversivo, precursore dell’ambientalismo, sistemico ante litteram, docente universitario fautore di una geografia interdisciplinare con inediti riferimenti all’ecologia, alla sociologia e alla politica, studioso del rapporto tra spazio e tempo e della complessità che caratterizza uomo e natura, detrattore del pensiero statuale in favore di una visione globale e dinamica dell’uomo e dello spazio, autore di una grande narrazione che ricerca la molteplicità dei punti di vista, relativizzatore dell’idea di progresso, promotore di un approccio antropologico alla geografia, uomo straordinario che ha dedicato la quota maggiore del suo impegno militante all’impegno scientifico con il fine di costruire un mondo più giusto. Elisée Reclus diceva  che nelle pieghe della società moderna è possibile reperire una rassegna di modelli alternativi, anche mutuati dall’esperienza di genti lontane o passate. Perché la società non dimentichi che gli esseri umani vivono in un territorio e non è salutare privarsi dell’esperienza naturale; che l’uomo è natura, è nella natura, ed è quindi suo compito rispettarla; che per vivere non si può prescindere dalla solidarietà dell’uomo con l’ambiente naturale e dall’aiuto reciproco fra esseri umani; che la natura è complessità e che, essendo l’uomo natura, il suo compito è rispettare la diversità; che non esiste una sola idea di progresso, che i percorsi sono molteplici e che è responsabilità etica di ognuno di noi prendere atto che non esiste un’unica opzione possibile. Secondo Reclus, il sistema comunità non è sostenibile né desiderabile senza coscienza individuale e autonomia personale. Il compito della pedagogia è quindi “educare a essere”, ovvero creare tutte le condizioni per cui l’essere sia, diventi esattamente quello che è e quello che decide progressivamente e autonomamente di diventare. Possiamo solo, e non è poco, trasmettere alle nuove generazioni il sentimento della bellezza, educarle al rispetto della natura e quindi di se stesse, dar loro gli strumenti per resistere al dominio, reinserendo nel discorso quotidiano il politico e lo storico, e con essi la domanda di senso che è condizione necessaria allo sviluppo di una coscienza critica; in altre parole, lasciare che la natura selvaggia esista: hic sunt leones.

Comontismo

Dall’idea del comunismo e della sua realizzazione scaturiva il principio della coerenza individuale, riducibile alla identificazione tra vita privata e attività politica. Ciò rimandava necessariamente non solo alla critica della politica ma anche a quella della vita quotidiana. 
La critica della proprietà si esprimeva nella rinuncia radicale alla proprietà individuale secondo il principio: “tutto in comune, nulla di personale”, in quanto la proprietà personale era considerata un cedimento al “feticismo mercantile”.
La critica del “sacrificio”, si realizzava nel rifiuto del lavoro (ma anche, per svilimento, di ogni attività pianificata e finalizzata), della “militanza” e nell’esaltazione del piacere, da cui derivò una spesso mortale sottovalutazione delle conseguenze dell’uso delle droghe pesanti la cui diffusione era agli albori.
La critica della merce: concretizzata nel rifiuto di accumulare valore, vivendo con indifferenza sia il lusso, esercitato come dissipazione, che le ristrettezze, affrontate con indifferente ironia, il tutto accompagnato da una pratica generalizzata di espropriazione, prevalentemente esercitata nel taccheggio presso supermercati e librerie.
La critica dei ruoli: espressa sia nei confronti di quelli prodotti dalla società (familiari, economici, istituzionali), sia di quelli che si profilavano all’interno dei rapporti comunitari (capo, gregario, maschio, femmina, ecc.). Da cui una sorta di rinuncia alla dimensione privata nella vita degli individui e una radicale integrazione della propria esistenza nel gruppo; ciò si realizzava attraverso una critica collettiva, spesso esasperata, delle azioni di ogni membro. Una pratica di “nomadismo” tra i vari “appartamenti-sedi”, era assunta per evitare l’identificazione con specifiche situazioni di vita e di “quotidianismo”.
La critica della politica: quindi del leaderismo, del militantismo, del partito degli specialisti. Ma, soprattutto, critica della pratica tradizionale della politica, contrapponendo ad essa una esaltazione senza riserve dell’illegalismo, fino ad identificare la criminalità comune, da cui prendere esempio, con la vera azione rivoluzionaria radicale. Ciò nel contesto di una disapprovazione dell’operaismo e dell’organizzazione anche di base del proletariato di fabbrica, in favore della spontaneità criminale.
Tutto ciò era considerato una manifestazione dell’autonomia proletaria alla quale “comontismo” tendeva ad approssimarsi il più possibile e di cui si considerava genuina espressione.

Il soggetto  automatico del capitale

Si parla di un capitalismo che distrugge il mondo ed è in procinto di autodistruggersi. Queste grida di allarme non denotano una presa di coscienza di fronte ai disastri del capitalismo, tanto quando questo procede normalmente quanto nei suoi periodi di crisi? Tuttavia, nella maggior parte dei casi, questi attacchi sono diretti solo contro la recente fase sregolata e selvaggia del capitalismo, la fase neo liberale, è niente affatto contro il regime di accumulazione capitalista in quanto tale, contro la logica tautologica che richiede di trasformare un euro in due euro e che consuma il mondo concreto come semplice materiale per questo accrescimento della forma-valore. Secondo loro, un ritorno al capitalismo saggio perché regolato e sottomesso alla politica, dovrebbe logicamente risolvere il problema.
Il discorso anti-neoliberale nega dunque che vi sia una crisi attuale? No, ma non vuole altro che la guarigione dai sintomi della malattia.
Da decenni l'atmosfera è votata al pessimismo. I giovani sanno, e accettano con rassegnazione, che vivranno peggio dei loro genitori e che le necessita di base - lavoro, casa - saranno vieppiù difficili da ottenere e da conservare. L'impressione generale è quella di scivolare lungo un pendio. La sola speranza è di non farlo troppo velocemente, ma non di potere davvero risalire. C'è la sensazione diffusa che la festa sia finita e che stiano per cominciare gli anni delle vacche magre.
Non assistiamo alla svalutazione di qualche mestiere a vantaggio di altri, come quando i maniscalchi sono stati rimpiazzati da meccanici come la mania delle riqualificazioni ci vorrebbe ancora far credere. Ora si tratta di una svalutazione generale di pressoché di tutte le attività umane, come mostra visibilmente l'impoverimento rapido e inatteso delle classi medie. Se a ciò si aggiunge la coscienza, ormai ben ancorata in ogni testa, dei disastri ambientali presenti e futuri e dell'esaurimento delle risorse, si può dire che oggi la gran maggioranza delle persone guarda al futuro con paura.
Quindi possiamo dedurre che durante questa crisi si è avuta più che mai l'impressione che le classi dominanti non dominassero granché, che queste fossero invece esse stesse dominate dal soggetto  automatico del capitale.

giovedì 15 dicembre 2016

EMANCIPAZIONE DELL'INTELLETTO GENERALE

Crediamo che la partita del futuro si giocherà tutta intorno alla neuroplasticità. Cartografare l'attività del cervello sarà la principale  sfida scientifica  dei prossimi decenni, mentre l'equivalente per la tecnologia sarà cablare l'attività del cervello collettivo. La nuova alternativa emergerà su questo piano: tra definitiva automazione del cervello collettivo e autonomia consapevole dell'intelletto generale.
I lavoratori cognitivi - particolarmente scienziati, artisti e ingegneri - saranno gli attori di questa nuova partita. Ma nel frattempo dobbiamo disegnare le linee di una nuova etica, per poter essere umani nella transizione post-umana.
Una nuova forma di neuro-totalitarismo definitivo oppure una nuova forma di umanesimo transumano? Questo è l'orizzonte della prossima alternativa. Sarà l'intelletto generale sottomesso alla macchina automatica che connetti i cervelli operativi individuali privati di ogni autonomia e singolarità, oppure la congiunzione cosciente di singolarità sensibili e sensuali sarà in grado di autorganizzarsi, e di trovare percorsi di simpatia, condivisione e collaborazione?
Sarà l'intelletto generale codificato in maniera permanente dalla Matrice e trasformato in uno sciame connettivo oppure sarà in grado di congiungersi con il suo corpo sociale e creare le condizioni per l'autonomia e l'indipendenza della Matrice stessa?
Il campo principale del contendere sarà l'attività della mente.
Il materiale organico, il cervello, e l'attività della mente come software cognitivo diverranno il nucleo della ricerca intellettuale e del conflitto politico.
L'alternativa che possiamo immaginare per il futuro è dunque questa: sottomissione della mente alle regola della neuro-macchina globale secondo il principio competitivo della economia capitalista, oppure l'emancipazione della potenza autonoma dell'intelletto generale.

KASHMIR Led Zeppelin

Oh, lascia il sole battere sul mio viso, le stelle riempire il mio sogno
Sono un viaggiatore del tempo e dello spazio, sono dove sono stato
Sedere con gli anziani della razza gentile, questo mondo ha visto di rado
Loro che parlano di giorni per i quali siedono e aspettano
Quando tutto sarà rivelato

Discorso e canzone da lingue dalla grazia cadenzata
I cui suoni accarezzano il mio orecchio
Ma non una parola che ho sentito potrei rivelare, la storia era abbastanza chiara
Oh, oh

Oh, ho volato … Mamma, non c’è nessuna negazione
Ho volato, non si può negare, negare

Tutto quello che vedo imbrunisce
Mentre il sole brucia la terra
E i miei occhi si riempiono di sabbia
Mentre scruto questa terra desolata
Cerco di trovare, cerco di trovare, dove sono stato

Oh, pilota della tempesta che non lascia tracce
Come pensieri dentro un sogno
Segui il cammino che mi ha portato a quel luogo, ruscello del giallo deserto
Il mio Shangri-La sotto la luna d’estate, tornerò di nuovo
Sicuro come la polvere che fluttua alta a giugno
Quando mi sposto per il Kashmir

Oh, padre dei quattro venti, riempi le mie vele
Per il mare degli anni
Senza previsione ma un viso scoperto
Lungo gli anfratti della paura
Oh

Quando sono, quando sono sulla mia strada, sì
Quando vedo, quando vedo la strada, rimani, si
Ooh, sì-sì, oh, sì-sì, quando sono giù
Ooh, sì-sì, oh, sì-sì, ma sono giù, così giù
Ooh, piccola mia, oh, piccola mia, permettimi di portarti lì

Dai, permettimi di portarti lì … permettimi di portarti lì

Un modello d'apprendimento quotidiano della libertà

A distanza di un secolo resta ancora intatta la freschezza che animava il percorso di sperimentazione seguito da Pouget, il tentativo di uscire da una stagione di sconfitta cercando linguaggi e strategie nuove che rinnovassero la capacità di fare fronte alle nuove modalità del conflitto capitalistico insieme ad una nuova abilità nel costruire consenso attorno alle proprie battaglie. In un'epoca, come quella attuale, in cui l'attenzione ossessiva riposta sui mezzi di lotta sembra voler sopperire alla debolezza di contenuti e prospettive sui fini, ritrovare questa memoria e recuperarne la fantasia può aiutare ad uscire dalla maledizione di un dibattito che ha trasformato la scelta dei metodi di lotta in un paralizzante dilemma ideologico attorno al quale definire la propria identità. L'attuale precarizzazione e individualizzazione delle condizioni e dei rapporti di lavoro ha notevolmente accentuato la pressione sui lavoratori. Mentre la contrattazione collettiva subisce un ridimensionamento sempre maggiore, i nuovi modelli di management sviluppano politiche di coinvolgimento totale e d'implicazione intima dell'individuo nel processo lavorativo, Alla disciplina militare del taylorismo si sostituisce la «valorizzazione della personalità» e la mobilitazione del «saper essere» del dipendente. Un discorso sulla supposta autonomia dell'individuo e sull'investimento nelle risorse umane che riposa, in realtà, sulla introiezione dei vincoli e degli obblighi che gravano sul lavoratore, fino ad arrivare ad una vera e propria colonizzazione padronale del suo cervello.
Sabotare, allora, può voler dire innanzitutto cominciare a non pensarla più così, a non lasciarsi implicare dai linguaggi suadenti e truffaldini della nuova etica del capitale, scopiazzati da filosofie critiche che egli ha saputo intelligentemente integrare. Sabotare vuol dire rilanciare una cultura conflittuale e antagonista che possa agire come modello d'apprendimento quotidiano della libertà, a partire innanzitutto dai luoghi di lavoro. Infatti, se c'è un limite fino ad ora espresso dalla cultura della disobbedienza in uso nei movimenti, esso riguarda innanzitutto la sua eccessiva estraneità dai posti di lavoro, quasi che sia stata integrata una sorta d'intangibilità della estrazione di plusvalore unicamente a vantaggio del consumo rivolto nei confronti di marche multinazionali.

giovedì 8 dicembre 2016

OGGI E’ UN BUON GIORNO PER MORIRE


Ho sognato il cielo coperto da nuvole scure di cavallette sciamanti ovunque. Giravano impazzite sul nostro campo e poi, improvvisamente, cadevano senza vita sulla terra, ai nostri piedi. E il cielo ritornava pulito.
Toro Seduto sogna e racconta le sue visioni. E’ un’arte che ha appreso da piccolo e, per la precisione e la qualità del racconto, lo distingue da ogni altro Lakota Sioux. Cavallo Pazzo lo ascolta preoccupato. Gli hanno raccontato che migliaia di soldati blù stanno dirigendosi verso il loro campo. Messo in piedi nei pressi del torrente Little Big Horn, nel cuore delle Black Hills: il centro culturale, spirituale, strategico della nazione Sioux. Sono arrivati anche gli Cheyenne e gli Arapaho. Quelli, almeno, sopravvissuti alle varie stragi perpetrate dalle forze armate degli Stati Uniti. Come a Sand Creek, con donne e bambini fatti, letteralmente, a pezzi dai volontari di John Chivington. O nei pressi del fiume Washita, dove il 7° cavalleria ha caricato, all’alba, fra le tende delle famiglie che dormivano; mentre i guerrieri erano lontani, a caccia di bisonti. Una carica per massacrare, guidata da Custer e dalla musica della banda reggimentale che suonava “Garry Owen”. Cavallo Pazzo ascolta preoccupato e allerta tutto il campo. Le donne e gli uomini dormiranno armati e, i più, veglieranno nella tiepida notte di prima estate.
Di nuovo Custer e il suo 7° reggimento di assassini stanno arrivando per distruggerli. Hanno l’ordine di fare piazza pulita di ogni “selvaggio”. Il governo americano vuole l’oro delle Colline Nere. Il capitalismo imperiale ha fame di risorse per incrementare i profitti; di nuove ricchezze da strappare alla terra, a ogni costo. La disciplina del progresso che sta imponendo al mondo, lo pretende senza tregua. Il suo carburante proviene dallo sfruttamento di ogni risorsa e dal controllo totale delle vite. Dormono e vegliano, le donne e gli uomini Lakota, Cheyenne, Arapaho.

Aspettano l’alba e l’arrivo degli sciami di cavallette. Il sole si alza, finalmente, sul campo a due passi dal torrente che porta acqua fresca. Niente, però, succede e i sorrisi distendono i volti, fra i giochi dei bambini.
Si gioca e si parla e si ama, nel campo delle donne e degli uomini, ma tutti restano vigili e armati. La prima carica si scatena alle 3 del pomeriggio del 26 giugno 1876 e, subito, si risponde e si contrattacca. Tutti a cavallo, addosso agli assassini venuti per massacrare. Questa volta, però, non ci sono solo vecchi, donne e bambini come a Sand Creek e a Washita; ma i migliori combattenti delle grandi pianure.

Dopo un paio d’ore di scontri cruenti, fino al più selvaggio corpo a corpo, Custer e la maggior parte del suo reggimento giacciano, senza vita, al suolo.Cavallo Pazzo e Toro Seduto hanno guidato la resistenza e urlato oggi è un buon giorno per morire. Sono vivi e le cavallette morte ai loro piedi.
Sanno che non potranno vincere, alla fine; ma, hanno insegnato, per sempre, al loro popolo e a ogni altro essere umano, cosa fare per affermare il diritto di vivere in dignità.
Cavallo Pazzo sarà assassinato, a colpi di baionetta, il 5 settembre 1877 a Fort Robinson (Nebraska – USA).
Toro Seduto cadrà colpito dai poliziotti Lakota, venduti ai padroni Yankees, dopo un’ultima disperata ribellione, a STANDING ROCK, il 15 settembre 1890.
In questi giorni, a STANDING ROCK, i Lakota Soux stanno, ancora, resistendo per impedire la costruzione, deturpante e inquinante i corsi d’acqua, dell’oleodotto della compagnia Energy Transfer Partners; il cui tracciato prevede l’attraversamento dei fiumi Missouri e Mississippi, così come parte del Lago Oahe, vicino alla Riserva dei Sioux.
La protesta è stata lanciata, in primavera, da un’anziana Sioux di Standing Rock e dai suoi nipotini; decisi a bivaccare nel percorso dell’oleodotto a difesa della terra e del loro popolo. Durante l’estate, il movimento è cresciuto sino a contare migliaia di persone proveniente da ogni dove degli Stati Uniti. La repressione è stata, fin da subito, durissima, con botte e arresti indiscriminati (oltre 200). Si risponde con improvvisi blocchi stradali e manifestazioni senza tregua. I Lakota e tutte/i le/i solidali con loro, non indietreggiano. La lotta per il diritto alla vita e la liberazione della Terra continua.
Il nostro cuore batte al loro fianco.

L’ALBERO VOLANTE di Edmond Jabès

Nei boschi ci sono alberi:
è una cosa naturale.
Sugli alberi ci sono foglie:
è una cosa evidente.
Ma se le foglie sono ali,
ecco, questa è una cosa
per lo meno sorprendente.
Volate volate, verdi alberi belli.
Per voi si apre il cielo.
Ma attenti all’autunno,
stagione fatale, quando a migliaia
le vostre ali
tornate ad esser foglie
cadranno.

Autogestione come emancipazione del lavoro

Allorché Guy Debord, nel 1954, scriveva sul muro di un viale della rive gauche «Ne travaillez jamais» «Non lavorate mai», lo slogan – ripreso da Rimbaud – era ancora pesantemente debitore del surrealismo e della sua progenie di artisti. L’Internazionale Situazionista ereditò dai surrealisti questa opposizione tra i mezzi politici concreti della emancipazione del lavoro e il fine utopico della sua abolizione. Il suo merito principale fu quello di ricondurre un’opposizione esteriore, mediata dal programma socialista, ad un’attività interna, più adeguata alla propria concezione della rivoluzione. Quest’ultima consisteva in una rielaborazione radicale della liberazione del lavoro, attraverso la quale si sottolineava il rifiuto di ogni separazione tra l’azione rivoluzionaria e la trasformazione totale della vita – un’idea già presente, seppure in modo implicito, nel progetto originario della «costruzione di situazioni». In virtù di questa capacità di ripensare lo spazio-tempo della rivoluzione, il superamento da parte dell’IS dell’opposizione tra liberazione e abolizione del lavoro si sostanziava, in definitiva, nella riunificazione dei due poli in un unità immediatamente contraddittoria, che trasponeva l’opposizione tra mezzi e fini in una opposizione tra forma e contenuto.
All’inizio degli anni ’60, l’IS aderì anima e corpo al programma rivoluzionario del comunismo dei consigli, esaltando la forma-consiglio – lo strumento attraverso il quale gli operai realizzerebbero l’autogestione della produzione e si impossesserebbero dell’intera potenza sociale – quale «forma infine compiuta» della rivoluzione proletaria. Da quel momento, tutti i limiti e le potenzialità dell’IS furono inscritti nella tensione tra l’appello ad «abolire il lavoro» e lo slogan fondamentale: «tutto il potere ai consigli operai!». Da un lato, il contenuto della rivoluzione coincideva dunque per l’IS con una rimessa in causa del lavoro in quanto tale (e non semplicemente della sua organizzazione), il cui fine doveva essere il superamento della separazione tra lavoro e tempo libero; dall’altro lato, la forma della rivoluzione era ricondotta all’appropriazione e alla gestione democratica delle fabbriche da parte degli operai. Ciò che ha impedito all’IS di sciogliere questa contraddizione è il fatto che le due polarità di forma e contenuto, nella teoria situazionista, rimanevano entrambe ancorate alla prospettiva della affermazione del movimento operaio e della emancipazione del lavoro. L’IS individuava il fondamento che rendeva possibile la critica dell’alienazione nella prosperità tecnologica propria del capitalismo moderno («la società dei divertimenti» generata dalle potenzialità dell’automazione) e nella forza del movimento operaio, capace tanto di indirizzare – attraverso le lotte quotidiane – quanto di appropriarsi – mediante i consigli rivoluzionari – questi progressi tecnici. Era dunque sulla base del potere operaio all’interno dei luoghi della produzione che, per l’IS, l’abolizione del lavoro, da un punto di vista tecnico e organizzativo, diventava possibile. Trasferendo le tecniche dei cibernetici e le attitudini degli anti-artisti bohémien nelle mani callose e agguerrite della classe operaia organizzata, i situazionisti furono in grado di immaginare l’abolizione del lavoro come risultato immediato della liberazione del lavoro; vale dire di immaginare il superamento dell’alienazione dell’attività come prodotto di una ristrutturazione tecnico-creativa della fabbrica da parte dei lavoratori stessi. In questo senso, l’IS rappresenta l’ultimo sincero atto di fede in una concezione dell’autogestione intesa come parte integrante del programma di emancipazione del lavoro.

giovedì 1 dicembre 2016

L’anarchia non è cosa del futuro

Il cammino della rivoluzione procede per rotture tra vecchio e nuovo, non è un percorso lineare, procede a salti, a volte considerabili positivi, in avanti, altre volte negativi, indietro, rispetto a quel processo di mutazione culturale critica e libertaria.
L’anarchia si deve costruire nel nostro vissuto senza aspettare l’evento rivoluzionario, poiché non esiste un solo grande potere da abbattere. Il potere come ci ricorda Michel Foucault non occupa un luogo unico privilegiato, né dipende da un unico soggetto identificabile una volta per tutte. Lo stato, le leggi, le egemonie sociali sono soltanto effetti e manifestazioni sul piano istituzionale di rapporti e strategie di potere. Il potere è, invece, anonimamente diffuso ovunque; è onnipresente e dappertutto, non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove. Il potere coincide con la molteplicità dei rapporti di forza, che variamente si intrecciano e si contrappongono. E’ una relazione fra individui e la società è attraversata da rapporti di potere: ogni rapporto sociale è un rapporto di potere.
Non ha senso parlare di stato come luogo dei rapporti di dominio, poiché i rapporti di dominio sono ovunque. Non ha più senso parlare di re, poiché i re stanno nelle famiglie, nei conventi, nelle fabbriche e nelle scuole. Siamo tutti agenti di regolazione sociale, tutti ci controlliamo reciprocamente; lo stato diventa un sistema di relazioni. 
Quindi essendo il potere qualcosa di disperso in tanti rapporti, a livello personale e politico, teorico e materiale, una rivoluzione tradizionale non ha senso non essendoci alcun palazzo da conquistare, al fine di eliminare gli effetti del potere e costruire una società trasparente. Fondamentale per un rivoluzionario è il lavoro costante tra la gente per combattere il dominio, cioè quel sistema di potere che è monopolio solo di una parte della società; è necessario un lavoro lungo e profondo di delegittimazione dell’autorità, per riuscire a rompere le asimmetrie nelle relazioni funzionali scatenando dal basso un inizio di mutazione culturale sotto forma di resistenza e attacco. Perché abbattere lo stato, non risolverebbe il problema del dominio, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali e sulla terra, senza un profondo e continuo lavoro di mutazione culturale nelle reti di rapporti fra esseri umani si ricreerebbe un nuovo dominio solamente con una veste nuova, come è successo in tutte le rivoluzioni del 900, che hanno avuto un intento totalizzante e si sono affidate a modelli di mutamento sociale autoritari e statuali. L’anarchia non è cosa del futuro, ma del presente; non è fatta di rivendicazioni ma di vita. Una vita che non attende il giorno della rivoluzione, o meglio che vede la rivoluzione come qualcosa in perenne movimento e aperta al cambiamento durante il suo percorso. Una concezione della rivoluzione come processo e non solo come evento. 

URLO di Rob Epstein e Jeffrey Freidman

«Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia …»
Era il 13 ottobre 1955 quando un giovane poeta, gli occhi ardenti dietro le lenti da miope, la voce swingante, leggeva pubblicamente alla Six Gallery di San Francisco il testo che avrebbe rivoluzionato la poesia e acceso le giovani menti della seconda metà del Novecento. Il poeta era Allen Ginsberg, il poema, Howl (Urlo). Un pugno nello stomaco per la crudezza con cui ritraeva l’altra faccia del sogno americano: droga, morte, solitudine, follia. Ma anche incredibile energia vitale. La stessa, grazie alla quale Ginsberg e i suoi compagni d’avventura diedero vita a quella che fu poi battezzata beat generation: una corrente poetica che si fece pensiero filosofico e movimento di massa.
Il film ha tre piani narrativi che si intrecciano armoniosamente. C’è la vita giovanile di Ginsberg con i suoi amici Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti, con i suoi amori (il primo, Neal Cassady, e quello della vita, Peter Orlowsky) e con le prime letture pubbliche del poema. C’è il processo creativo, straordinariamente raffigurato attraverso i disegni animati di Eric Drooker, che già aveva illustrato alcune poesie di Ginsberg, del quale era amico fin da ragazzino. E c’è il processo penale, rigorosamente ricostruito sulle trascrizioni degli atti, che nel 1957 vide imputato Ferlinghetti, editore di Howl, per linguaggio osceno.
Il consumo disinibito di droghe e omosessualità sfrenata esplode sulla pagina stampata e il dibattito su cosa abbia valore letterario e cosa ne sia totalmente sprovvisto apre una breccia nella critica accademica. L’accusa infierisce su forma e stile, estrapolando versi che, privi di contestualizzazione, divengono facili bersagli, mentre nel salotto di casa propria
Allen Ginsberg riflette sulle scelte compiute conversando con un anonimo intervistatore. L’arringa finale dell’avvocato Ehrlich è un inno alla libertà di pensiero ed espressione, il tentativo di portare la luce in un universo, quello letterario, dominato da tradizionalismi e chiusure mentali. Liberare Urlo dal giogo censorio significa aprire uno spiraglio culturale alla modernità, al progresso, alla diversità, consacrando un poeta al successo della prova più difficile: quella del tempo. Rob Epstein e Jeffrey Friedman sono una nota coppia di documentaristi statunitensi. I loro lavori hanno da sempre scavato in argomenti (problematiche o semplicemente cronache) legati al mondo dell’omosessualità. Epstein diresse nel 1984 “The Times of Harvey Milk”, documentario che ripercorre la vita e la carriera politica di Harvey Milk, consigliere gay eletto a San Francisco. Il film ispirò Gus Van Sant per il suo “Milk” e ottenne l’Oscar come miglior documentario.


L'essenza stessa della democrazia diretta

Il ricatto tecnologico che pesa sul presente accomuna nella perplessità di tutti gli uomini che vogliono godere della vita al meglio delle loro possibilità.
Il governo di una società umana non può più permettersi di non avere al centro delle proprie preoccupazioni l'uomo stesso.
Una volta rimessa al centro la soggettività degli esseri umani, diventa urgente che la parola democrazia ritrovi il senso, ma anche la poesia, della sua etimologia storica. Ii governo del popolo non può essere che quello di individui liberi. La democrazia deve avere la pretesa di difendere tutti i diritti tra di loro e gli uni contro gli altri.
La pubblicità della merce che si vanta di sponsorizzare la democrazia, in realtà l'avvelena per vendere poi il suo cadavere imbalsamato. In un mondo in cui le tecniche di manipolazione sono raffinatissime e capillari, la creazione di un gregge maggioritario è un caso tanto frequente che la difesa strenua della scelte minoritarie diventa un elemento fondamentale di una società fondata su una resistenza strutturale all'addomesticamento. Poiché ogni forma burocratizzata di rappresentatività si trasforma in dittatura spettacolare della maggioranza, si deve rifiutare la delega prolungata del potere decisionale pur accettando una dose di rappresentatività resa inevitabile dal numero di individui coinvolti.
In una  società della gratuità, l'intensità dei controlli che oggi l'economia dedica ossessivamente all'obbiettivo di far pagare fin all'ultimo centesimo il prezzo degli esseri e delle cose sarà invece dedicata amorevolmente alla vigilanza della libertà di ciascuno, unica garanzia della felicità di tutti.
Riprendendo una sensibilità che certe tribù guerriere del Nord America avevano già spontaneamente sviluppato, nessuna autorità decisionale deve potersi stabilire al di là di una funzione puntuale. Nessun capo deve risultare tale nella vita quotidiana del gruppo: la sola autorità, riconoscibile più che riconosciuta, è quella naturale che secerne l'umanità di ciascuno, la sua esperienza la sua qualità avverata. Una autorità, che non concede privilegi, che non ha valore gerarchico, che non si può capitalizzare ma di cui si può godere fraternamente. In questo consiste l'essenza stessa della democrazia diretta.