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giovedì 28 luglio 2016

L'Europa fa acqua da tutte le parti

Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiamo preso l'oro e i metalli, poi il petrolio dei «continenti nuovi» e li abbiamo riportati nelle nostre vecchie metropoli. Non senza risultati eccellenti: palazzi, cattedrali, città industriali; e poi, quando la crisi minacciava, i mercati coloniali eran lì per estinguerla o stornarla. L'Europa, satura di ricchezze, accordò l'umanità a tutti suoi abitanti: un uomo, da noi, vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale. Questo continente grasso e smorto finisce per incorrere in quel che Fanon chiama giustamente il «narcisismo ». Cocteau s'irritava di Parigi, «città che parla continuamente di se stessa». E l'Europa, che altro fa? E quel mostro supereuropeo, l'America del Nord? Che cicaleccio: libertà, uguaglianza, fratellanza, amore, onore, patria, che so io? Questo non c'impediva di tenere nello stesso tempo discorsi razzisti, porco negro, porco ebreo, porco arabo. Spiriti buoni, liberali e delicati — neocolonialisti, insomma — si pretendevano urtati da questa incongruenza; errore o malafede: niente di più congruo, da noi, che un umanesimo razzista, poiché l'europeo non ha potuto farsi uomo se non fabbricando degli schiavi e dei mostri. Fintanto che ci fu un indigenato, quella impostura non fu smascherata; si trovava, nel genere umano, un'astratta postulazione d'universalità che serviva a coprire pratiche più realiste; c'era, dall'altra parte dei mari, una razza di sottouomini che, grazie a noi, tra mille anni forse, sarebbe arrivata al nostro stadio. Insomma, si confondeva il genere con l'élite. Oggi l'indigeno rivela la sua verità; di colpo, il nostro club così chiuso rivela la sua debolezza: non era altro che una minoranza. C'è di peggio: poiché gli altri si fanno uomini contro di noi, si vede chiaro che noi siamo i nemici del genere umano; l'élite rivela la sua vera natura: una banda di malfattori. I nostri cari valori perdono le ali; a guardarli da vicino, non se ne troverà uno che non sia macchiato di sangue. Capite bene che non ci si rimprovera d'aver tradito non so qual missione: per la bella ragione che non ne avevamo alcuna. È la generosità stessa ad esser in causa; questa bella parola sonante non ha che un senso: statuto elargito. Per gli uomini di fronte, nuovi e liberati, nessuno ha il potere né il privilegio di dar niente a nessuno. Ognuno ha tutti i diritti. Su tutti; e la nostra specie, quando un giorno si sarà fatta, non si definirà come la somma degli abitanti del globo ma come l'unità infinita delle loro reciprocità. Basta guardare in faccia, per la prima e l'ultima volta, le nostre aristocratiche virtù: esse stanno crepando; come sopravviverebbero all'aristocrazia di sottuomini che le ha generate? Alcuni anni or sono, un commentatore borghese — e colonialista — per difendere l'Occidente non ha trovato altro che questo: «Non siamo angeli. Ma noi, almeno, abbiamo rimorsi». Che confessione! Un tempo il nostro continente aveva altre tavole di salvezza: il Partenone, Chartres, i Diritti dell'Uomo, la svastica. Si sa adesso quello che valgono: e non si pretende più di salvarci dal naufragio se non col sentimento molto cristiano della nostra consapevolezza. È la fine, come vedete: l'Europa fa acqua da tutte le parti. Che è dunque successo? Questo, molto semplicemente, che eravamo i soggetti della storia e che ne siamo adesso gli oggetti. Il rapporto delle forze si è rovesciato, la decolonizzazione è in corso; tutto quel che i nostri mercenari possono tentare è ritardarne il compimento. 

(Prefazione di Jean Paul Sartre 1961 - I dannati della terra - Fanon)

I Katanga a Parigi nel ‘68

E utile fornire al loro riguardo qualche spiegazione perché il legame tra i Katanga e il movimento del maggio può non essere così evidente. Il nome “katanga” era stato dato a questi giovani da un giornalista parigino in carenza di immaginazione. Aveva paragonato i giovani del servizio d’ordine ai mercenari della guerra del Katanga; il che significava che facevano solo da semplici esecutori al soldo degli studenti. Chi erano veramente? Non ho conosciuto tutti i katanghesi, solo una decina, ma credo di poter affermare che avevano più o meno la stessa origine sociale: giovani tra i diciassette e i trent’anni, operai di fabbrica, alcuni disoccupati, abitanti nelle banlieurs delle grandi città e, per quello che qui ci interessa, della regione di Parigi. Per evitare di tracciarne un ritratto troppo idilliaco, diciamo che qualcuno aveva uno stile da teppista, vicino a quella gioventù delinquente che avevo gia incontrato nella mia vita. Ma niente di grave.
Cosa ci facevano alla Sorbonne, Censier, Odeon e nelle manifestazioni di studenti? […] il servizio d’ordine. Resta un’importate questione: un servizio d’ordine di studenti non dovrebbe essere formato solo da studenti? Cosa si stavano a fare lì quei giovani, che con tutta evidenza nulla avevano a che fare con l’università?
Il maggio ’68 non e stato una semplice occupazione di quartiere o universitaria, ma un movimento di grande ampiezza che ha messo in pericolo il governo dell’epoca. Gli scontri con la polizia e i provocatori a volte sono stati molto violenti: per affrontarli ci voleva un servizio d’ordine - come si dice -  muscoloso. Gli studenti, più dotati per la scrittura e la lettura che per il combattimento di strada, non avevano trovato tra di loro le risorse sufficienti. E’ per questo che hanno accettato l’edea dei Katanghesi. E poi, bisogna riconoscerlo, su una barricata un teppista vale almeno due studenti. 

Crimethlnc: interrompere i processi che producono povertà

La provocazione che caratterizzò la nostra gioventù fu prendere alla lettera il motto situazionista NON LAVOREREMO MAI. Alcuni di noi decisero di provare sulla propria pelle se fosse realmente possibile. Questo atto di spavalderia rivelò tutto l’ingegno della spontaneità giovanile, e tutte le sue insidie. Anche se molti altri avevano percorso questa via in passato, per noi fu come essere i primati lanciati per primi nello spazio. In ogni caso, facevamo qualcosa, prendevamo il sogno della rivoluzione sul serio, come un progetto che si può avviare immediatamente nella propria vita, con – come si diceva allora – un aristocratico disprezzo per le conseguenze.
Di per sé, né la disoccupazione volontaria, né gli atti di vandalismo gratuito sembrano in grado di scuotere la società e indirizzarla verso una situazione rivoluzionaria. Nel giro di un decennio la storia ha reso obsoleto il nostro esperimento, accogliendo, per assurdo, la nostra rivendicazione di una classe inadatta al lavoro. Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti, presunto al 4% nel 2000, alla fine del 2009 era salito al 10% – contando soltanto le persone che cercavano attivamente un impiego. Gli eccessi della società dei consumi una volta offrivano a chi se ne chiamava fuori un certo margine di errore; la crisi economica ha eroso questo margine e ha conferito alla disoccupazione un sapore decisamente involontario.
È ormai evidente che il capitalismo non ha più bisogno di noi di quanto noi abbiamo bisogno di lui. E questo non vale soltanto per gli anarchici refrattari, ma per milioni di lavoratori negli Stati Uniti. Nonostante la crisi economica, le grandi multinazionali continuano a registrare enormi profitti, ma invece di usare queste entrate per assumere più dipendenti, investono nei mercati esteri, acquistano nuove tecnologie per ridurre il fabbisogno di manodopera, e distribuiscono i dividendi agli azionisti. Ciò che fa bene alla General Motors non fa bene al paese, insomma. Le aziende statunitensi più redditizie stanno ora trasferendo la produzione e i consumi all’estero, nei “mercati in via di sviluppo”.
In questo contesto, la cultura dell’autoesclusione assomiglia un po’ troppo a un programma volontario di austerità; ai ricchi conviene, se rifiutiamo il materialismo consumistico, dato che in ogni caso non c’è abbastanza per tutti. Alla fine del Ventesimo secolo, quando la maggior parte delle persone si identificava con la propria professione, il rifiuto di abbracciare il lavoro quale forma di realizzazione personale esprimeva il rigetto dei valori capitalistici. Oggi il lavoro saltuario e l’identificazione con le proprie attività ricreative, invece che con la carriera professionale, sono ormai normalizzati come condizione economica piuttosto che politica.
Il capitalismo sta facendo propria anche la nostra convinzione che le persone dovrebbero agire secondo la propria coscienza, invece che per un salario. In un’economia che offre abbondanti possibilità di vendere il proprio lavoro, è ragionevole sottolineare l’importanza di altre motivazioni per svolgere un’attività; in un’economia in crisi, essere disposti a lavorare gratuitamente ha implicazioni diverse. Lo Stato, per compensare gli effetti deleteri del capitalismo, fa sempre più assegnamento sulla stessa etica dell’autoproduzione che un tempo animava il movimento punk. Lasciare che i volontari ambientalisti ripuliscano la chiazza di petrolio provocata dalla BP costa molto meno di farlo fare a dipendenti retribuiti, per esempio. Lo stesso vale per Food Not Bombs, se lo si considera un programma di beneficenza anziché un metodo per generare flussi sovversivi di risorse e solidarietà.
Oggi la sfida non è convincere la gente a rifiutarsi di vendere il proprio lavoro, ma dimostrare come una classe in esubero sia capace di sopravvivere e resistere. Di disoccupazione ne abbiamo in abbondanza: dobbiamo interrompere i processi che producono povertà. 

giovedì 21 luglio 2016

La crisi della città e la degradazione dell’ambiente naturale

Solo dopo la guerra, in corrispondenza con l’avvio della più grande fase di espansione economica capitalistica della storia, Bookchin assume decisamente dei punti di vista libertari, anarchici ed ecologici. Bookchin tenta di rifondare una valida teoria critica del capitalismo che stava penetrando in maniera sempre più invadente e distruttiva in tutti gli ambiti della vita sociale. Due sono i terreni di riflessione che Bookchin individua a dimostrazione delle evidenti potenzialità distruttive dello sviluppo capitalistico: la crisi della città e la degradazione dell’ambiente naturale.
La potente trasformazione della città avviatasi agli inizi del ‘900, dalla quale hanno origine, come sostiene anche Mumford, le prime metropoli – ambienti urbani che si strutturano attorno ai ghetti e che si riproducono sulla base di separatezze, antagonismi e campanilismi - è il primo evidente processo di dissoluzione di un’antica solidarietà che era profondamente radicata tra le classi popolari, tra gli operai ed i proletari dei quartieri storici cittadini, solidarietà basata essenzialmente su un agire e su rapporti essenzialmente comunitari.
Bookchin sostiene con forza che la coesione dei rapporti sociali si è fondata per lungo tempo sulla solidarietà, sul minimo irriducibile e sull’ usufrutto, concetti che potrebbero sostituire ancor oggi il nostro sacro concetto di possesso e di utilità. La fenomenologia della città ben rappresenta la regressione della comunità umana da consociazione liberamente scelta e fondata sul senso della socializzazione dell’agire politico, ad associazione sociale basata sull’interesse, sull’utilità e sulla delega allo stato della definizione della normatività sociale.
Una società gerarchica, sostiene Bookchin, ha una visione gerarchica anche della natura; ma allo stesso tempo l’idea di una natura organizzata in modo autoritario, gerarchico e competitivo rafforza gli istituti dominanti della stessa società. Per questo, a suo avviso, occorre che si ritorni ad una visione diversa della natura, ad una filosofia della natura oggettiva che ne riporti i preponderanti caratteri di solidarietà, ricchezza, mutualismo ed abbondanza. La società non può continuare a vedere la natura come una nemica dell’uomo. Le società organiche esprimevano questa idea di natura; le successive società basate sul dominio ne capovolgono l’originaria percezione. 

THE MIRROR – Spooky Tooth

Ho guardato nello specchio
ed ha avvelenato
la mia mente per due volte
mi ha lasciato per tutte
e due le volte paralizzato
e ha gettato il mio destino
come se fosse un dado.
Ho guardato nello specchio
e per due volte
il diavolo mi ha sorriso,
la mia carne era venduta
senza sentimento
senza rima o ragione.
Il sorriso sulla mia faccia
ha lasciato posto
ai miei sentimenti
ma solo il tempo era lì per vederlo.
Da qualche parte nello spazio
i miei pensieri stanno
ancora rifiutando,
lo specchio guardava
attraverso l’inferno
e mi ha condannato dove sono caduto.
Tu hai bistrattato il pugile,
hai tenuto basso il suo spirito,
hai colorato il suo riflesso,
perché a te
non piaceva il suo rumore
ma adesso la sua testa
si sta chiarendo,
e inizio a vedere la luce,
adesso guardo nello specchio
e non capisco
se è giorno o notte,
guarda luce.
 

Crimethlnc, atto uno

Al volgere del secolo, potevamo immaginare l’anarchismo solo come una diserzione da un ordine sociale onnipotente. Dieci anni fa, da giovani folli idealisti, pubblicammo Days of War, Nights of Love, insperatamente uno dei libri anarchici più venduti nel decennio successivo. Se pur controverso all’epoca, in retrospettiva si rivelò ragionevolmente rappresentativo di quanto molti anarchici andavano chiedendo: immediatezza, decentramento, autoproduzione quale pratica di resistenza al capitalismo. Aggiungemmo alcuni elementi di provocazione: anonimato, plagiarismo, illegalità, edonismo, rifiuto del lavoro, delegittimazione della storia a favore del mito, l’idea che la lotta rivoluzionaria potesse essere un’avventura romantica. Il nostro approccio si inscriveva in un contesto storico preciso. Il blocco sovietico era da poco crollato e le imminenti crisi politiche, economiche ed ecologiche non si erano ancora profilate; il trionfalismo capitalista era al suo apice. Volevamo scalzare i valori borghesi, perché parevano sintetizzare le aspirazioni di ogni persona; presentammo la lotta anarchica come un progetto individuale, perché era difficile immaginare qualcosa di diverso. Quando il movimento antiglobalizzazione prese slancio negli Stati Uniti e lasciò il passo al movimento contro la guerra, giungemmo a concettualizzare la lotta in un’ottica più collettiva, se pur derivante da una decisione personale di opporsi a uno status quo profondamente radicato.
Oggi buona parte di ciò che proclamavamo è acqua passata. Il capitalismo è entrato in uno stato di crisi permanente, le innovazioni tecnologiche sono penetrate sempre più a fondo in ogni aspetto della vita, e l’instabilità, il decentramento e l’anonimato hanno finito per caratterizzare la nostra società, senza portarci minimamente più vicino al mondo dei nostri sogni. Spesso i radicali pensano di trovarsi in una landa desolata, senza contatti con la società, quando in realtà ne costituiscono l’avanguardia – pur non avanzando necessariamente verso le mete cui anelano. Come sostenemmo poi nel n. 5 di Rolling Thunder, la resistenza è il motore della storia: genera sviluppi sociali, politici e tecnologici, costringendo l’ordine prevalente a innovarsi di continuo per aggirare o assimilare l’opposizione. Possiamo pertanto contribuire a trasformazioni formidabili, senza mai raggiungere il nostro obiettivo.
Con questo non vogliamo attribuire ai radicali la capacità di determinare gli eventi mondiali, semmai affermare che spesso ci ritroviamo inconsciamente al loro apice. Rispetto all’immensità della storia, qualunque azione è infinitesimale, ma il concetto stesso di teoria politica implica che è ancora possibile sfruttare questa capacità di agire in maniera significativa. Quando studiamo le singole strategie di lotta, dobbiamo fare attenzione a non avanzare rivendicazioni che possano essere smontate da riforme parziali, onde evitare che i nostri oppressori neutralizzino i nostri sforzi limitandosi a fare qualche semplice concessione. Alcuni esempi di progetti radicali che possono essere facilmente recuperati sono talmente ovvi che è quasi una banalità ricordarli: il feticismo della bicicletta, la tecnologia sostenibile, gli acquisti a kilometro 0 e altre forme di consumo etico, il volontariato che mitiga le sofferenze provocate dal capitalismo globale senza metterne in discussione le cause. Ma questo fenomeno può verificarsi anche a livello strutturale. Dobbiamo esaminare i modi in cui abbiamo reclamato una trasformazione sociale generale che potrebbe avere luogo senza scuotere le fondamenta del capitalismo e della gerarchia, cosicché la prossima volta i nostri sforzi possano portarci fino in fondo.

giovedì 14 luglio 2016

Sull'anarchismo

Uno scrittore francese, simpatizzante anarchico, scriveva nell'ultimo decennio del secolo scorso che "l'anarchia ha le spalle larghe; come la carta, sopporta qualunque cosa" – ivi compresi, egli notava, coloro le cui azioni sono di tal fatta che "un nemico mortale dell'anarchia non avrebbe potuto agire meglio". Sono molti gli stili di pensiero e d'azione che sono stati qualificati come "anarchico". Sarebbe vano tentare di unificare tutte queste tendenze contrastanti in una qualche ideologia o teoria generale. E quand'anche si tenti di rintracciare nella storia del pensiero libertario una tradizione vivente in evoluzione, come fa Guérin nel suo L'anarchisme, rimane difficile formularne le dottrine come una ben determinata teoria della società e del mutamento sociale. Lo storico anarchico Rudolf Rocker, che traccia un profilo sistematico dello sviluppo del pensiero anarchico in direzione dell'anarcosindacalismo, secondo un'impostazione molto prossima a quella del lavoro di Guérin, puntualizza esattamente la questione quando scrive che l'anarchismo non costituisce "un sistema sociale definito e in sé concluso, quanto piuttosto una ben determinata tendenza nello sviluppo storico dell'umanità che, in contrasto con la tutela intellettuale imposta da tutte le istituzioni clericali e governative, lotta per il libero e incondizionato dispiegamento delle forze individuali e sociali della vita. La libertà stessa è soltanto un concetto relativo, e non assoluto, poiché tende costantemente ad espandersi e a coinvolgere sfere sempre più ampie in una crescente varietà di modi. Per l'anarchico, la libertà non è un astratto concetto filosofico, ma la concreta possibilità vitale per ogni essere umano di sviluppare appieno tutte le potenzialità, le facoltà, le doti che la natura gli ha donato, volgendole a vantaggio della società. Minore è il peso della tutela ecclesiastica e politica in questo naturale sviluppo, e tanto più ricca e armonica diverrà la personalità umana, tanto più decisamente essa diverrà la misura della cultura intellettuale della società in cui è cresciuta."

CHI HA LE SUE RADICI di Joseba Sarrionandia Uribelarrea

Difficilmente lascia la patria
chi ha lì le sue radici.
Difficilmente l’albero lascia la sua terra 
se non è abbattuto e trasformato in assi.
La pupilla non abbandona l’occhio
se non per il becco dei corvi o il morso degli scorpioni.
Difficilmente il sale lascia il mare
o la sabbia il deserto.
Il giglio non abbandona la primavera
né la neve il biancore.
Difficilmente lascia la patria
chi ha lì le sue radici. 

(Joseba Sarrionandia Uribelarrea, conosciuto anche col soprannome Sarri, scrittore spagnolo di lingua basca, poeta e filologo. Nel 1980 fu condannato a 28 anni di carcere come sospetto membro dell’organizzazione indipendentista E.T.A. Cinque anni dopo riesce a evadere dalla prigione di Martutene, insieme a un altro prigioniero, Joseba Picabia, con una spettacolare fuga, nascosto dentro un altoparlante, al termine di un concerto del cantante Imanol Larzabal.)

L'anarchia di Noan Chomsky

L'anarchia mi ha attratto fin da quando ero un giovane adolescente, da quando ho cominciato a riflettere sulle cose del mondo, e da allora non ci sono state ragioni che mi abbiano portato a rivedere le mie posizioni. Sono convinto che abbia un senso cercare, identificare, e combattere le strutture autoritarie, gerarchiche, quelle che dominano tutti gli aspetti della vita. Non hanno la minima giustificazione, sono illegittime: l'unico modo per raggiungere la libertà umana è quello di distruggerle. Mi riferisco al potere politico, alla proprietà, al dirigismo, alle relazioni tra uomini e donne, tra padri e figli, al controllo che viene esercitato sul destino delle generazioni future (l'imperativo morale che è alla base del movimento ambientalista, per esempio) ed a molto altro ancora.
Naturalmente, questo significa una sfida alla coercizione e al controllo delle grandi istituzioni: lo stato, le inesplicabili tirannie  private che controllano la maggior parte dell' economia nazionale ed internazionale. Ma non solo questo. Quel che ho sempre considerato l'essenza della anarchia è la convinzione che si deve porre alla autorità una prova di assunzione di responsabilità, e che questa  (l'autorità) deve essere combattuta e distrutta se non è in grado di provare la giustezza di questa assunzione di responsabilità. A volte questo è possibile. Se passeggio con i miei nipoti e loro si mettono a correre per una strada trafficata, non solo userò l'autorità ma anche la repressione fisica pur di fermarli. La giustezza dell'atto dovrebbe essere verificata, e questo si può fare rapidamente. Ma ci sono altri casi così: la vita è una questione complessa, comprendiamo assai poco degli esseri umani e della società, e le grandi dichiarazioni sono generalmente più una fonte di danno che di beneficio. Sono convinto che la prospettiva posta dalle idee anarchiche sia valida e possa condurci molto lontano.

giovedì 7 luglio 2016

I lavoratori della notte nella Parigi del novecento

Signori, adesso sapete chi sono: un ribelle che vive del ricavato dei suoi furti. Di più. Ho incendiato diversi alberghi e difeso la mia libertà contro l’aggressione degli agenti del potere. Ho messo a nudo tutta la mia esistenza di lotta e la sottometto come un problema alle vostre intelligenze. Non riconoscendo a nessuno il diritto di giudicarmi, non imploro ne perdono ne indulgenza. Non sollecito ciò che odio e che disprezzo. Siete i più forti, disponete di me come meglio credete. Ma prima di separarci, lasciatemi dire un’ultima parola.
Non sono ne ricco ne proprietario, la società non mi accordava che tre mezzi di esistenza: il lavoro, la mendicità e il furto. Il lavoro, al contrario di ripugnarmi, mi piace. Ciò che mi ripugna e di sudare sangue e acqua per un salario, cioè di creare ricchezze dalle quali sarei sfruttato. In una parola, mi ripugna di consegnarmi alla prostituzione del lavoro. La mendicità e l’avvilimento, la negazione di ogni dignita. Ogni uomo ha il diritto di godere della vita. Il diritto di vivere non si mendica, si prende.
Il furto e la restituzione, la ripresa di possesso. Piuttosto di essere chiusi in un’officina come in una prigione, piuttosto di mendicare ciò a cui abbiamo diritto, preferiamo insorgere e combattere faccia a faccia i nemici, facendo la guerra ai ricchi e attaccando i loro beni. Loro ovviamente preferirebbero che ci sottomettessimo alle leggi, che operai docili creassimo ricchezze in cambio di un salario miserabile, e che, il corpo sfruttato e il cervello abbrutito, ci lasciassimo crepare al angolo di una strada. In quel caso per loro non saremmo “banditi cinici”, ma “onesti operai”. Adulandoci ci darebbero la medaglia al lavoro. Preferisco essere un cinico cosciente dei suoi diritti che un automa, una cariatide.
Non accetto la pretesa morale che impone il rispetto della proprietà come una virtù, quando i peggiori ladri sono i proprietari stessi. Tutto ciò che e costruito dalla forza e dall’astuzia, l’astuzia e la forza possono demolirlo. Il popolo si evolve continuamente. Istruiti in queste verità, coscienti dei loro diritti, tutti i morti di fame, tutti gli sfruttati, in una parola tutte le vittime, si armeranno di un “piede di porco” assalendo le case dei potenti per riprendere le ricchezze che essi hanno creato e che loro hanno rubato. Riflettendo bene, preferiranno correre ogni rischio invece d'ingrassare i ricchi gemendo nella miseria. La prigione, i lavori forzati, il patibolo non sono prospettive troppo paurose di fronte ad una intera vita di abbrutimento, piena di ogni tipo di sofferenze.

FRAGOLE E SANGUE di Stuart Hagmann

Protagonista del film è un ragazzo ventenne, Simon, studente universitario e appassionato canoista. Simon vive il malcontento che sta montando nel suo College con distacco e indifferenza; solo un pizzico di ribellismo che manifesta in solitarie e brevi elucubrazioni sul divano della residenza universitaria in cui vive insieme ad un suo coetaneo. Fino a quando, spinto dall'interesse sentimentale che nutre per Linda, una militante attiva, non si avvicina al movimento di protesta. Il pretesto che la innesca è la destinazione di un campo da gioco, prima riservato agli afro-americani della zona, all'addestramento delle reclute da inviare in Vietnam. Spinto dalla curiosità, più da cineamatore che da contestatore, si reca allora nei pressi dell'Università armato della sua cinepresa per filmare quel che accade intorno. Ma poi il suo sguardo cade sulla ragazza che da tempo cerca di abbordare, ed è colpo di fulmine: si intruppa tra gli studenti che intendono occupare la facoltà, poi entra nel gruppo incaricato di procurare il cibo, di cui Linda è uno dei leader. Poi, però, l'onda della contestazione si allarga a temi più vasti, e il ragazzo comincia a prendere coscienza delle ragioni della protesta. Va a trovare un amico pestato dalla polizia, durante gli allenamenti lo chiamano, spregiativamente, "comunista" ma lui non ci fa caso; insomma l'occupazione diventa motivo di crescita e palestra di vita. Poi arriva il fatidico giorno in cui l'Università deve
essere sgomberata. Più volte intimati di allontanarsi gli studenti si oppongono passivamente. Ma la polizia non scherza, e come vuole il meccanismo perverso della repressione, quando fa irruzione all'interno dell'Università, per portare via con la forza i manifestanti, è la fine della "dichiarazione delle fragole". E nella scena finale, quando gli studenti disposti in cerchi concentrici a cantare la struggente "Give peace a chance" di John Lennon, in attesa della carica della polizia, le note lasciano il posto alle urla dei feriti, ai colpi dei manganelli, alle sirene delle autoblindo. Ed è mattanza di "fragole" e di ideali.
Il progetto del film nella sua totalità nasce sia dalla rude cronaca, da un'affermazione del rettore della Columbia università che non si preoccupava di ciò che pensavano gli studenti "più di quanto mi preoccupi delle fragole", e dall'ondata di protesta che negli anni ’60 scosse tutto l’Occidente, una protesta antiautoritaria, che investì i valori di una società individualista e conformista che stentava a mutare; si rifiutò la repressione e l'autoritarismo delle vecchie generazioni, in nome di un mondo più libero. Il movimento di protesta perseguiva valori egalitari, anti-borghesi, anti- autoritari e anti-militaristi, sull'onda degli ideali espressi dal filosofo americano di origini tedesche, Herbert Marcuse; e rigettava i modelli tradizionali di vita imposti dalla politica, dalla religione, dalla scuola. La contestazione globale mise insieme classi e ceti; investì il mondo del sapere, la morale e i rapporti umani; sovvertì un modello culturale, sconvolse un costume, rifiutando totalmente uno stile di vita e soprattutto quelle istituzioni finalizzate a trasmettere modelli di disciplina, per loro natura rigidamente repressive o fondate su principi fortemente gerarchici, come l'esercito, la polizia, la magistratura, la chiesa, i partiti; istituzioni che furono fortemente contestate e violentemente rifiutate.
Certo è sempre stato un privilegio dell'età giovanile "essere contro". Essere contro tutte le storture del mondo, contro le ingiustizie, le discriminazioni, le guerre, le violenze. Ma hanno sempre lasciato il tempo che trovavano. In quegli anni, invece, si ebbe paura di loro: si ebbe paura che davvero riuscissero a cambiare le cose, che riuscissero a sovvertire l'ordine costituito, che soffiasse impetuoso quel vento di cambiamento capace di spazzare via governi e sistemi politici, in nome di una trasformazione radicale della società.
Il film di Stuart Hagmann è ricco di metafore, pensiamo ai tanti fili spinati o alla riprese attraverso le sbarre, simboliche affermazioni di libertà e di immagini iconografiche dai muri delle aule campeggiano le foto sia di Bob Kennedy che di Che Guevara, di Mao come di Fidel Castro, di slogan e di parole d'ordine, "Fragole e sangue" è forse il più letterale dei film sul sessantotto americano, e conserva ancora, nelle sue varie sfaccettature, una notevole forza magnetica e le pieghe dei ricordi di un futuro che non si è concretizzato.

La nuova alienazione

La scuola non è soltanto la nuova religione universale. È anche il mercato del lavoro in più rapida espansione che ci sia oggi nel mondo. La fabbricazione di consumatori è diventata il principale settore in sviluppo dell’economia. Nelle nazioni ricche, man mano che diminuiscono i costi di produzione, si assiste a una crescente concentrazione sia del capitale che del lavoro nella gigantesca impresa di preparare l'uomo a un consumo disciplinato. Nell'ultimo decennio gli investimenti di capitale in rapporto diretto con il sistema scolastico sono aumentati ancor più rapidamente delle spese per la difesa. La scuola offre occasioni illimitate di sprechi legittimi, fin quando non ci si renderà conto della sua distruttività e continuerà ad aumentare il costo dei palliativi. Se aggiungiamo agli insegnanti a tempo pieno i frequentatori a tempo pieno, ci accorgiamo che questa cosiddetta sovrastruttura è diventata il maggior datore di lavoro della nostra società.
È un fatto che viene spesso dimenticato dagli studiosi neomarxisti, i quali dicono che il processo di descolarizzazione dovrebbe essere rinviato o accantonato fin quando una rivoluzione economica e politica non avrà posto rimedio ad altre disfunzioni, ritenute tradizionalmente più fondamentali. Ma solo considerando la scuola un'industria si può programmare una strategia rivoluzionaria realistica. Per Marx il costo di produzione della richiesta di merci aveva un'importanza trascurabile. Oggi la maggior parte della manodopera umana è impegnata nel produrre richieste che possano essere soddisfatte da un'industria a forte intensità di capitale. La massima parte di questo lavoro viene fatto nella scuola.
Nello schema tradizionale, l'alienazione era una conseguenza diretta della trasformazione dell'attività lavorativa in lavoro salariato, che toglieva all'uomo la possibilità di creare e di essere ricreato. Oggi invece i giovani vengono alienati in partenza dalle scuole che li isolano mentre pretendono di essere sia produttrici che consumatrici della propria conoscenza, la quale è concepita come una merce messa sul mercato nella scuola. La scuola fa dell'alienazione una preparazione alla vita, togliendo così realtà all'istruzione e creatività al lavoro. Con l'insegnare la necessità di assoggettarsi all'insegnamento, prepara all'istituzionalizzazione alienante della vita. Una volta imparata questa lezione, le persone perdono l'incentivo a svilupparsi in modo indipendente, non trovano più niente che le attragga nello stato di reciproca relazione e si chiudono alle sorprese che la vita offre quando non è predeterminata dalIa delimitazione istituzionale. E la scuola, direttamente o indirettamente, impiega una percentuale importante  della popolazione. O tiene con se una persona per tutta la vita o fa in modo che essa si inserisca saldamente in qualche altra istituzione. La nuova chiesa universale è l'industria del sapere, che per un numero crescente di anni fornisce all’individuo sia l'oppio sia il banco di lavoro. Per questo la descolarizzazione è la premessa indispensabile di qualunque movimento per la liberazione dell'uomo.