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giovedì 30 giugno 2016

Il concetto di docilità

Il concetto di docilità è un attributo molto frequente tra gli uomini delle società democratiche contemporanee: le nostre società. Nella fucina e riproduzione di tale docilità, interviene, evidentemente, la Scuola, a fianco delle istituzioni rimanenti della società civile, di tutti gli apparati dello Stato. Sembra, inoltre, che questa docilità, potenzialmente assassina e capace di convertirci in mostri, si sia estesa a quasi tutti gli strati sociali, dall’alto al basso, e caratterizza tanto gli oppressori che gli oppressi, tanto i proprietari come gli espropriati. Non risultando inaudita tra i primi (dipendenti dello Stato, proprietari, uomini delle imprese, gente - come si sa - con stoffa di mostri), ma risulta inesplicabile, sorprendente, tra i secondi: docilità dei lavoratori, docilità degli studenti, docilità dei poveri. Lavoratori, studenti e poveri che s’identificano, eccezioni a parte, con quella stessa immagine, data da Nietzsche: l’immagine della vittima colpevole. Vittime per la posizione subalterna che occupano nell’ordine sociale: posizione dominata, alle spese di questa o quell’altra modalità del potere, sempre nello sfruttamento o nella dipendenza economica. Ma allo stesso tempo “colpevoli”: colpevoli di agire come agiscono, esattamente in virtù della loro docilità, della loro remissività, della loro conformità all’esistente, della loro scarsa resistenza. Colpevoli per le conseguenze obiettive della loro docilità...
Docilità dei nostri lavoratori, organizzati in sindacati che riflettono e rafforzano la loro sottomissione. Dal di fuori dei recinti dell’impiego, le voci di quegli uomini che sfuggono al salario hanno espresso, polemicamente, l’impossibilità di simpatizzare con l’operaio - tipo dei nostri tempi: «E’ più degno elemosinare che lavorare; ma è più edificante rubare che elemosinare», annotò un celebre ex delinquente...
Docilità dei nostri studenti, sempre più disposti a lasciarsi intrappolare nel modello “dell’auto-professore”, dell’alunno partecipativo, attivo, che tiene le redini della classe, che interviene nell’elaborazione dei temari e nella gestione democratica dei centri, che, incluso, intenta l’auto-qualificazione; giovane sommesso alla nuova logica dell’educazione riformata, tendente a mettere all’angolo la figura anacronistica del professore autoritario classico e ad erigere l’alunno a soggetto-oggetto della pratica pedagogica. Studenti capaci di reclamare, come confermano alcune inchieste, un rafforzamento della disciplina scolare, una fortificazione dell’ordine nelle aule... Docilità di alcuni poveri che oggi si limitano a sollecitare la compassione dei privilegiati come privilegio della compassione, e nel cui comportamento sociale già non vive il benché minimo pericolo. Indigenti che ci offrono il compassionevole spettacolo di un’agonia amabile, senza la messa in discussione dell’ordine sociale generale; e che muoiono lentamente - o non così lentamente - davanti ai nostri occhi, senza accusarci né aggredirci, aggrappati alla rachitica speranza che qualcuno addolcisca i loro prossimi quarti d’ora...


Linsurrezione selvaggia da Bedlam Rovers

I Politici cercano in continuazione di prendersi cura dei lavoratori per migliorare le nostre condizioni. Il problema è che non li stanno mai ad ascoltare. Se lo facessero, capirebbero che in sostanza non vogliono lavorare, e non vogliono lavorare specialmente in un mondo come questo, né in qualsiasi altro programma di autogestione dei lavoratori. L’idea di autogestire la nostra schiavitù è ancor meno allettante dell’avere un nemico che fa schioccare la frusta. NOI sappiamo che l’industria non ci offre felicità né appagamento, perché ci viviamo dentro e perché l’abbiamo costruita. Questa storia dei politici di sinistra o dei sindacati che ci dicono che solo nelle fabbriche gestite dai lavoratori possiamo trovare la liberazione deve finire. Credete che la loro utopia eliminerà l’inquinamento e le sostanze tossiche prodotte dall’industria, l’abuso dei bambini e delle donne prodotto dal disprezzo che si prova per se stessi lavorando come bestie, e l’abuso di se stessi con droghe e alcol per riuscire a sopportare il lavoro o per essere più efficienti? A tutto questo la risposta è NO! 
L’apparato industriale non può funzionare senza nocività. Contrariamente a quanto credono la maggior parte dei politici di ogni colore, non esiste una tecnologia eco-compatibile, il computer senza il quale non potete vivere non può essere fabbricato senza sostanze tossiche. Così, mentre liberate voi stessi, avvelenate anche l’aria che respirate e l’acqua che bevete, oltre a uccidere molte altre specie. Anche senza i capitalisti, il lavoro servile, duro, noioso, ripugnante continuerà ad esistere finché avremo bisogno di lavorare. Un’economia mercantile non può funzionare senza che la maggioranza delle persone continui a svolgere lavori di routine. Ora, se si crea un mondo in cui possiamo disporre di qualsiasi merce vogliamo: credete che la gente lavorerebbe meno? A quel punto lavoreremmo per la merce stessa, diventando quindi schiavi della merce e non più dei capitalisti. Non stiamo lottando per ottenere il nostro posto nella catena di montaggio e passare la vita lavorando. Non crediamo che gli esseri umani siano i razionali “eredi del pianeta”. I Politici non hanno niente da offrire alla nostra rivolta quotidiana. Allora che cosa dobbiamo fare? Ci hanno fatto credere che per cambiare dobbiamo andare a destra o a sinistra. Fottetevene. La risposta è l’insurrezione selvaggia.


I diseredati della terra sanno come fare la loro rivoluzione

La nostra idea sociale non è nè un utopia, nè una fantasia e neppure un ideale lontano. Quando le circostanze sono favorevoli i diseredati della terra sanno come fare la loro rivoluzione. Essi sono perfettamente capaci di risolvere tutti i loro problemi e di scavalcare tutte le difficoltà. Per fare questa rivoluzione i proletari non hanno bisogno nè di partiti politici, nè di élite intellettuali, nè di dirigenti...
Quando i proletari scendono nelle strade sanno come sbarazzarsi e senza alcuna difficoltà di tutti i pregiudizi, nazionali, religiosi, cuturali e di costume, Si è spesso rimproverato loro come anche agli insorti di kronshtadt una spontaneità esagerata, la mancanza di coesione e soprattutto l'assenza di una forte organizzazione operaia. Per certi versi è stato così, ma questo non significa che siamo maturati. Abbiamo conosciuto i nostri difetti e non arretreremo su questo punto...
Senza armonia sociale tutto si riduce a qualcosa di analogo alle piramidi di Egitto, impressionano per la loro grandiosità, ma spaventano per il sacrificio di lutti e miseria che nascondono...
L'indistrializzazione non è una realizzazione dello Stato socialista, ma una tappa obbligata di uno Stato padrone che ha già fallito nel suo programma di un comunismo di guerra. Quanto alla collettivazzazione noi sappiamo che da tempo i contadini hanno cominciato a sfrattare i loro sfruttatori.
( tratto da un discorso di Volin - Francia 1918).

venerdì 24 giugno 2016

L’organizzazione come condizione della vita sociale di Errico Malatesta

L’organizzazione, che poi non è altro che la pratica della cooperazione e della solidarietà, è condizione naturale, necessaria della vita sociale: è un fatto ineluttabile che s’impone a tutti, tanto nella società umana in generale, quanto in qualsiasi gruppo di persone che hanno uno scopo comune da raggiungere. Non volendo e non potendo l’uomo vivere isolato, anzi non potendo esso diventare veramente uomo e soddisfare i suoi bisogni materiali e morali se non nella società e colla cooperazione dei suoi simili, avviene fatalmente che quelli che non hanno i mezzi o la coscienza abbastanza sviluppata per organizzarsi liberamente con coloro con cui hanno comunanza d’interessi e di sentimenti, subiscono l’organizzazione fatta da altri individui, generalmente costituiti in classe o gruppo dirigente, allo scopo di sfruttare a proprio vantaggio il lavoro degli altri. E l’oppressione millenaria delle masse da parte di un piccolo numero di privilegiati è stata sempre la conseguenza della incapacità della maggior parte degl’individui di accordarsi, di organizzarsi con gli altri lavoratori per la produzione, per il godimento e per la eventuale difesa contro chi volesse sfruttarli ed opprimerli. Per rimediare a questo stato di cose è sorto l’anarchismo, il cui principio fondamentale è l’organizzazione libera, fatta e mantenuta dalla libera volontà degli associati senza nessuna specie di autorità, cioè senza che nessuno abbia il diritto di imporre agli altri la propria volontà. Ed è quindi naturale che gli anarchici cerchino di applicare nella loro vita privata e di partito quello stesso principio, su cui, secondo loro, dovrebbe essere fondata tutta quanta la società umana. Da certe polemiche può sembrare che vi siano degli anarchici refrattari ad ogni organizzazione; ma in realtà le molte, le troppe discussioni che si fanno tra noi sull’argomento, anche se oscurate da questioni di parole, o avvelenate da questioni personali, in fondo riguardano il modo e non già il principio di organizzazione.

GATTI SELVAGGI

Proprio in un momento difficile, come questo, è nata dentro di noi una consapevolezza irresistibile: la necessità di muoverci politicamente in modo diverso. Al di fuori di ogni schema ideologico tradizionale.
Noi non abbiamo miti di fronte ai quali inchinarci!!!
Non siamo marxisti, tanto meno leninisti o stalinisti. Siamo delle coscienze rivoluzionarie. Ci sta bene tutto ciò che è realmente radicale.
Seppelliamo i cadaveri delle vecchie ideologie!!!
La nostra lotta non ha come fine, semplicemente, migliori condizioni di vita, ma ha, come obiettivo ultimo, l’abolizione della proprietà privata e del capitale di stato. La nostra lotta vuole raggiungere la libertà reale e il diritto a una nuova vita nella sua totalità. Ci opponiamo a tutte le forme di organizzazione che abbiano in sé il principio della “delega”. Secondo il nostro parere e bene costruire organismi di pochi elementi nei quali o si decide tutti insieme o non si decide nulla.
Questi organismi dovrebbero prendere ispirazione, per le loro azioni, dalla loro specifica realtà. Ci sarà, naturalmente, un collegamento tra questi gruppi, ma non sarà a livello di comitati con poteri decisionali, sarà solo per informazioni. Queste forme di organizzazioni devono portare a uno svolgimento della vita sociale per quartiere e, quindi, a un controllo politico e diretto della realtà.
La nostra totale liberazione dipende direttamente dalla totale distruzione del capitalismo mondiale.
Nucleo Autonomo di Quarto Oggiaro

(Tratto da Gatti Selvaggi, N° 1 dicembre 1974 – gennaio 1975)   

I Diggers contro la compra e la vendita

Quando gli uomini cominciarono a comprare e a vendere, persero la loro innocenza, poiché allora iniziarono ad opprimersi e a frodarsi a vicenda dei diritti che spettavano loro per nascita. Prendiamo quest`esempio: se la terra appartiene a tre persone, e due la comprano e la vendono, alla terza che rifiuta di dare il suo consenso è negato il suo diritto, e i discendenti saranno coinvolti in una lite. 
La pratica della compra e vendita pertanto suscitò ed ancor oggi suscita malcontento e guerre che hanno tormentato a sufficienza l'umanità. E le nazioni del mondo non impareranno mai a trasformare le loro spade in vomeri, e le loro lance in falcetti, e non smetteranno di farsi la guerra, finché questo espediente truffaldino di comprare e vendere non sarà gettato via tra i rifiuti del potere regale.
Ma un uomo non potrà mai diventare più ricco di un altro?
Non ce n'è bisogno, poiché la ricchezza rende l'uomo vanaglorioso, orgoglioso, e lo porta ad opprimere i fratelli; ed è causa di guerre.
Nessun uomo può arricchirsi se non grazie al suo lavoro o al lavoro di altri uomini che l'aiutano. Se un uomo non riceve alcun aiuto da parte del vicino, non potrà mai accumulare una proprietà che gli renda centinaia e migliaia all'anno. Se altri uomini l'aiutano nel lavoro, allora quelle ricchezze appartengono ai suoi vicini tanto quanto a lui, poiché sono il frutto delle fatiche altrui oltre che delle proprie.
Tutti i ricchi vivono nell'agiatezza, si nutrono e si vestono grazie al lavoro di altri uomini, non del proprio; ciò è la loro vergogna, non la loro nobiltà. C’è infatti più felicità nel dare che nei ricevere. I ricchi ricevono tutto ciò che possiedono dalle mani del lavoratore, e quando danno, danno il frutto del lavoro altrui, non del proprio. Non agiscono pertanto con giustizia. (Gerard Winstanley 1651)

giovedì 16 giugno 2016

La Quarta Guerra Mondiale

Il terrorismo, come i virus, è dappertutto. C’è una perfusione mondiale del terrorismo, che è come l’ombra portata di ogni sistema di dominio, pronto dappertutto a uscire dal sonno, come un agente doppio. Non si ha più linea di demarcazione che permetta di circoscriverlo, il terrorismo è nel cuore stesso della cultura che lo combatte, e la frattura visibile (e l’odio) che oppone sul piano mondiale gli sfruttati i sottosviluppati al mondo occidentale si congiunge segretamente alla frattura interna al sistema dominante.
Non si tratta quindi di uno scontro di civiltà né di religioni, è qualcosa che va molto al di là dell’Islam e dell’America, su cui si tenta di focalizzare il conflitto per darsi l’illusione di un confronto visibile e di una soluzione di forza. È un antagonismo fondamentale, ma un antagonismo che designa, attraverso lo spettro dell’ America (che è forse l’epicentro, ma non certo l’incarnazione della mondializzazione) e attraverso lo spettro dell’islam ( che non è certo, per parte sua, l’unica incarnazione del terrorismo), la mondializzazione trionfante alle prese con se stessa. In questo senso, possiamo si parlare di guerra mondiale, ma non della terza, bensì della quarta, l’unica veramente mondiale, poiché a essere in gioco è la mondializzazione stessa. Le prime due guerre mondiali corrispondevano all’immagine classica della guerra. La prima ha posto fine alla supremazia dell’Europa dell’era coloniale. La seconda al nazismo. La terza, che ha già avuto luogo, sotto forma di guerra fredda e di dissuasione nucleare, ha posto fine al comunismo. Dall’una all’altra, si è andati ogni volta più avanti, verso un ordine mondiale unico. Oggi, quell’ordine, virtualmente giunto al termine, si trova alle prese con forze antagonistiche diffuse ovunque nel cuore stesso del mondiale, in tutte le convulsioni attuali. Guerra frattale di tutte le cellule, di tutte le singolarità che si ribellano sottoforma di anticorpi. Scontro talmente inafferrabile che diviene necessario di tanto in tanto salvare l’idea della guerra con messe in scena spettacolari, come la guerra del Golfo o quella dell’Afghanistan. Ma la quarta guerra mondiale è altrove. È ciò che incombe su ogni ordine mondiale, su ogni dominio egemonico – se a dominare il mondo fosse l’islam, il terrorismo prenderebbe l’islam a bersaglio. Perché è il mondo stesso che resiste alla mondializzazione. 

LUCI DI RIVOLTA Plastination

Una goccia d’inchiostro
nel tempo della parola
Un nucleo esplosivo
nell’ultimo silenzio

Luci di rivolta
sul buio rivoltante

Un granello di sabbia
arso dall’ingiuria
Armato dallo spirito
contro il demone censore

Luci di rivolta
sul buio rivoltante

Insorto, sbocciato
come un fiore in guerra
Smembro la massa
per trovare me

KRONSTADT INSEGNI

Io ascolto la critica perché sono avido. Ascolto la critica perché sono egoista. Non mi lascerei mai nelle mani di un altro, al suo potere psicologico. L'atteggiamento egoista critico è un valore d'uso o non è nulla; valore d'uso in riferimento al soggetto che lo adopera. Si tratta di non perdere il proprio tempo a  criticare qualcuno che non ci interessa. Ogni altro atteggiamento sarebbe un servizio reso ad un ideale, ancora una volte una proiezione morale della propria passione critica, critica scaduta in liturgia della critica.
L'atteggiamento critico ed egoista tende a rinforzarmi soggettivamente nel mutuo interesse del mio Io e della mia critica, per  il beneficio della nostra comune ricchezza e del nostro comune progetto. E' un atteggiamento immanente: critica di me stesso nel mio proprio interesse. E perchè questa critica sia possibile, perchè la critica di qualcuno mi interessi, mi devo riconoscere in esso; dobbiamo condividere un interesse comune, quindi una comunità concreta. 
La nostra soggettività è la nostra auto scoperta ovunque e sempre. Noi dobbiamo riconquistare noi stessi constantemente. Accorti del fatto che anche l'egoismo comunista può essere trasformato in ideologia e che il diritto all'avidità può essere facilmente rivoltato in una nuova morale, se io lascio che qualcuno mi ordini, in nome del mio stesso interesse, di desistere da una qualunque attività che io abbia liberamente intrappreso, sulla base del fatto che sarebbe oggettivamente sacrificale. Se ciò accedesse la scena finale sarebbe probabilmente questa: qualche burocrate con la pistola puntata che dice: "In nome del tuo interesse comunista, cioè del proletariato come totalità, abbiamo stabilito che è meglio per te che noi ti uccidiamo". KRONSTADT INSEGNI

giovedì 9 giugno 2016

Il Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil

Il Manifesto per la soppressione dei partiti politici mostra rigore di pensiero e richiama quella più alta moralità, a partire dalla quale Weil basa il senso della rivoluzione. Moralità e pensiero sono sostenuti dall’amore per la verità. Mentendo alla verità, i paladini dei poteri costituiti e dei partiti politici ammutoliscono il pensiero in
dogmi e dottrine inconfutabili; Weil parla della verità vissuta in anima e corpo secondo le parole del Cristo: «sono venuto per rendere testimonianza alla verità».
Per apprezzare i partiti politici secondo il criterio della verità, della giustizia e del bene pubblico conviene cominciare distinguendone i caratteri essenziali”, scrive Simone e ne attesta tre. Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva (e per passione collettiva si intende fanatismo); un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte; il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite. “Per via di questa tripla caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade perché quelli che lo circondano non lo sono di meno”. Considerando la terza caratteristica, Simone la illustra come caso particolare di un fenomeno che si verifica ovunque la collettività prenda il sopravvento sugli esseri pensanti. “I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale in tutta l’estensione di un paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità”.
Weil prosegue ammettendo che il meccanismo di oppressione spirituale e mentale proprio dei partiti è stato introdotto nella storia dalla chiesa cattolica nella sua lotta contro l’eresia. E se, nonostante l’Inquisizione, la chiesa non ha soffocato del tutto lo spirito di verità è perché la mistica offriva un rifugio sicuro. Rifugio sicuro non tanto per l’incolumità fisica o la scomunica morale, ma per mantenere viva la verità, la testimonianza della quale “è costituita dai pensieri che sorgono nello spirito di una creatura pensante, unicamente, totalmente, esclusivamente desiderosa della verità”.
I partiti le sembrano, in conclusione, un male senza mezze misure. La loro soppressione “costituirebbe un bene quasi allo stato puro”, giacché l’operazione di prendere partito, anche in termini più generali, “di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero”.

HO CAPITO di Emidio Paolucci

Sai che c’è
c’è che me ne sto qui
in silenzio
me ne sto qui e penso…
penso a questo silenzio
e vorrei che
questo silenzio ci divorasse
ci inghiottisse
lasciandoci fare tutto quello che vorremmo fare
in silenzio.
Noi oltre ogni cosa
noi sì
forse sì
credo di sì.
A noi basterebbe il silenzio
lo so
noi non avremmo bisogno d’altro
basterebbe uno sguardo
un sospiro da un sussulto…
Io ho capito
ho capito che basterebbe il silenzio
solo il silenzio
per dimenticare
tutto quello che non è stato.
Il silenzio per tornare
viverci
vivendo.

A bordo della nave da guerra Petropavlovsk

I. considerato che i soviet attuali non esprimono la volontà degli operai e dei contadini di organizzare immediatamente delle nuove elezioni a scrutigno segreto e di avere una libera propaganda elettorale; 
II. di esigere la libertà di parola e di stampa per gli operai, i contadini, gli anarchici e i parttiti socialisti di sinistra;
III. di esigere la libertà di riunione e la libertà delle organizzazioni sindacali e delle organizzazioni contadine; 
IV. di organizzare al più tardi per il 10 di Marzo una conferenza degli operai senza partito, dei soldati e dei marinai di Pietrogrado, di Kronshtadt e del distretto di Pietrogrado;
V. di liberare tutti prigionieri politici dei partiti socialisti, come di tutti gli operai e i contadini, soldati rossi e uomini di mare imprigionati dei differenti movimenti operai e contadini;
VI. di eleggere una commissione per la revisione dei dossier dei detenuti delle prigioni e dei campi di concentramento;
VII. di sopprimere tutte le Sezioni Politiche perchè nessun partito deve avere i privilegi  per la propaganda delle idee nè deve ricevere dallo Stato risorse a questo scopo. Al loro posto devono essere creati dei circoli culturali destinatari delle risorse provenienti dallo Stato;
VIII. di sopprimere immediatamente tutti i distaccamenti ai pedaggi;
IX. di rendere uguali tutte le razioni alimentari per tutti i lavoratori con l'eccezione di coloro che esercitano mestieri insalubri o pericolosi;
X. di sopprimere i distaccamenti armati comunisti nelle unità militari e di far sparire il servizio di guardia comunista nelle officine e nelle fabbriche. In caso questi servizi si rendessero necessari saranno designati dalle compagnie di ciascuna unità militare tenendo conto del parere degli operai;
XI. di dare ai contadini la libertà di azione completa sulle loro terre come il diritto di possedere del bestiame che dovranno accudire da lori stessi senza ricorrere al lavoro di salariati.
(Tratto dalla risoluzione votata dall'Assemblea Generale dei marinai di Kronshtadt dalle formazioni dei Soldati Rossi e accettata dalla popolazione operaia.- Kronshtadt 28 Febbraio 1921).

giovedì 2 giugno 2016

Il Candidato visto da Eliseo Reclus

Reclus è sempre stato anarchico sia per temperamento sia per principio, ma il suo anarchismo ha acquistato in coerenza man mano che la sua analisi sociale si è ampliata diventando una critica puntuale a ogni forma di dominio. Di questa critica, uno degli aspetti più sviluppati è l’attacco devastante allo Stato, cui egli si oppone in tutte le sue espressioni, non esclusa la finzione ideologica dello Stato rappresentativo. Sebbene ancora nel 1871 sia disposto a presentarsi come candidato all’Assemblea Nazionale, già da tempo è arrivato a opporsi al sistema parlamentare nel suo insieme e per il resto della sua esistenza si rifiuterà di votare alle elezioni nazionali, anche nella proverbiale ipotesi del minore dei mali. Secondo lui, tutti coloro che cercano di esercitare il potere in uno Stato-nazione centralizzato si espongono al rischio di essere assorbiti all’interno di quel sistema di dominio. A suo dire, chiunque aspiri a una carica pubblica, innalzato al di sopra della folla che ben presto impara a disprezzare, finisce per considerarsi un essere sostanzialmente superiore; sollecitato in mille forme dall’ambizione, dalla vanità, dall’avidità e dal capriccio, diventa a maggior ragione facile da corrompere. Questa parabola, egli nota, è favorita da un codazzo di adulatori interessati che è sempre in caccia per approfittarsi dei vizi del potente. Le osservazioni di Reclus sul processo di selezione dei candidati alle elezioni sono acutissime e si adattano perfettamente alla cosiddetta democrazia rappresentativa dei nostri giorni. Per conquistarsi un seguito, egli nota, il candidato a una carica pubblica deve compiacere una molteplicità di fazioni, per cui inevitabilmente le ambizioni vengono a galla, le manovre, le gare di promesse, le menzogne hanno buon gioco: non è il più onesto di quelli che si propongono ai suffragi che ha più probabilità di successo. In linea di principio il legislatore deve essere specialista in ogni campo, per prendere decisioni in nome di tutti su ogni argomento immaginabile. Ovviamente nessun candidato possiede tali capacità in misura maggiore degli elettori. In pratica, ai candidati si chiede di essere esperti nella scienza di essere eletti e nessuna capacità specifica raccomanda il candidato agli elettori. Caratteristiche del tutto irrilevanti o arbitrarie diventano essenziali per la vittoria elettorale: L’eletto dovrà il suo successo a una certa popolarità locale, al carattere cordiale, alla capacità oratoria, al talento organizzativo, ma frequentemente anche alla ricchezza, alle relazioni familiari e persino, se grande industriale o grosso proprietario, al timore che incute. I prodotti di questo sistema corrotto sono una serie di persone mediocri, senza alcuna concezione del bene comune. Il politico di successo più spesso sarà un uomo di partito: non gli si chiederà di operare per il pubblico bene, né di facilitare i rapporti fra gli uomini, ma di combattere questa o quella fazione. Il rischio più grave non è l’incompetenza del corpo legislativo, ma il fatto che esso sia moralmente abbietto in quanto dominato da politici di professione. I rappresentanti del popolo prenderanno di sicuro decisioni di gran lunga peggiori, per il popolo, di quelle che il popolo prenderebbe direttamente, senza il problema di organizzare le elezioni. Dopo che sono stati eletti, questi sedicenti rappresentanti sono ancor più liberi di agire al di fuori di ogni controllo popolare.
Sapendo di non dovere effettivamente rispondere a nessuno tra un’elezione e l’altra e ben consapevole della propria impunità, l’eletto si trova immediatamente esposto a ogni sorta di allettamenti da parte delle classi dominanti. I legislatori si ritrovano in un mondo dominato dal potere e dalla ricchezza che è del tutto estraneo alla vita reale del proprio elettorato. La forza di questo ambiente è tale da travalicare tutti gli scrupoli che potrebbero frapporsi sulla via della totale identificazione con l’élite politica, in quanto il nuovo arrivato s’inizia alla tradizione legislativa sotto la guida di veterani del parlamentarismo, adotta lo spirito di corpo, riceve le sollecitazioni della grande industria, degli alti funzionari e, in modo particolare, della finanza internazionale.

LA DEA DEL 67 di Clara Law

"I want to buy a Goddess" 
Il film inizia con questo messaggio e-mail, inviato in rete da JM, giovane giapponese di Tokyo. JM però non sta cercando una donna ma una automobile, la leggendaria Citroen DS, uscita in Francia nel 1967 in solamente 1 milione e mezzo di esemplari, e in virtù della pronuncia francese, la Déesse, divenne per tutti la Dea, the Goddess. Trovata l'auto dei suoi sogni parte per l’Australia dopo aver affidato i suoi amati rettili alle cure di un'amica ed aver rubato una grossa somma di denaro via Internet. Al suo arrivo scopre che l'uomo che gli ha venduto la macchina ha sterminato la famiglia prima di suicidarsi. Nella casa dalle mura ancora sporche di sangue trova una giovane dai capelli rossi e cieca, BG, che si offre di portarlo dal vero proprietario della macchina. Comincia così un lungo viaggio attraverso il paese, durante il quale i due protagonisti ripercorrono le fasi più importanti della loro vita: la drammatica infanzia della ragazza, che si rivela attraverso dei flashback depurati dal colore, e il doloroso ricordo, confessato con pochissime parole, che ha spinto JM a lasciare il Giappone.
I due protagonisti scivolano in un paesaggio artificiale, lucido, con cieli dipinti di blu, nuvole d'ovatta, interni hi-tech di algore metallico, colori elettrici e lividi di giorno, caldi e morbidi di notte. La Citroen DS, feticcio color salmone, sfreccia attraverso le strade assolate di un'Australia marziana, navicella spaziotemporale in esplorazione di luoghi e tempi paralleli. In un'epoca di segni e di simboli, di oggetti di culto e idoli consumistici, l'auto, come il telefono satellitare, come il computer portatile, diviene totem da adorare, divinità privata che il denaro può comprare.
C’è molta filosofia orientale in La dea del 67, c’è l’incontro oriente e occidente sospeso, non risolto c’è il complesso di colpa eterno che la religione cattolica da sempre produce nei suoi fedeli, racchiuso nel terribile segreto di BG, una spensierata ragazza cieca. Poi c’è lei, la Dea. Che solleva dalle brutture della vita, che fa volare, che è occhi per vedere e mezzo per scappare. 
C'è soprattutto una bambina piccola, bellissima e cieca che chiede disperatamente aiuto a sua madre: "lui mi tocca, mi leva i vestiti, mi schiaccia". Ma la giovane madre non vuole sentire, porta la bambina in una cappella abbandonata perché si inginocchi e chieda perdono a Dio, "per avere vermi nel corpo e erbacce nella testa". La madre va dall'uomo e lo supplica di lasciare stare quella bambina. Ma lui perché dovrebbe farlo? Non c'è ragione che rinunci a un piacere che è anche un suo diritto: perché quella giovane donna è sua figlia e la sua amante, e quella bambina è sua figlia e sua nipote: cioè tutte e due gli appartengono, e lui può farne quello che vuole. Il modo in cui la regista Clara Law, nata a Macao, vissuta a Hong Kong, trapiantata in Australia, ha raccontato nel suo film la tragedia più spaventosa della pedofilia, l'incesto, non è scandalistico, non è orrificato, non è trucido. E' fatto di pietà, di stupore, di dolore, e contiene forse quel germe di verità che in eventi così spaventosi è quasi impossibile accettare. Qui non ci sono delitti, nessuna bambina viene uccisa fisicamente, eppure di delitti sull'infanzia, di un modo di uccidere il cuore delle bambine, il film parla. Non spreca parole o immagini di indignazione, non ci racconta di un mostro, non muove nello spettatore un viscerale bisogno di vendetta e di pena di morte. Ci racconta lo sfinimento e il dolore, la debolezza e il dominio, il sesso imposto con criminale egoismo e il sesso subito tra le lacrime e l'impossibile rifiuto. La violenza sui bambini, anche in famiglia, è il lato nero del cuore umano, che può manifestarsi ovunque.


Antimilitarismo anarchico

Una tematica sempre attuale e ricorrente, proporzionale purtroppo a tutte le volte che l’uomo ha considerato “l’altro” un nemico da abbattere, in nome di un confine, di una bandiera, della retorica della razza o della nazione. Lo Stato, o l’autorità in generale, ha opportunisticamente ed ossessivamente eretto sempre un muro, una gabbia, un carcere, tra un uomo ed un suo “simile”. La convinzione della natura intrinsecamente malvagia dell’uomo, lupo verso l’altro, è stata ampiamente confutata da una ricca corrente filosofica, antropologica e sociologica capace di svelare la strumentalità di tale concezione a solo discapito del potere, come garanzie di controllo e stabilità raggiunte, inducendo ed imponendo nella psiche dell’uomo il terrore sociale, al punto tale da generare incessantemente divisioni, leggi, guerre e paure.
Tutti gli anarchici non possono che essere antimilitaristi, perché tutti gli anarchici rifiutano l’autoritarismo, la gerarchia militare e l’uso degli eserciti come strumento di repressione o di sostegno al capitale. Tutti gli anarchici odiano la violenza ed auspicano una società  pacifica ed egualitaria.
Con il termine Antimilitarismo si cerca di delineare e definire un movimento sociale, e al contempo un ideale, che si pone in netta opposizione alla guerra e alle sue istituzioni militari, e si schiera fortemente contro alle pratiche di esaltazione e diffusione dello spirito militaristico.
Gli eserciti “moderni” nascono accanto alla nascita, ma soprattutto all’affermazione delle Entità Statali, con il compito della repressione tramite l’utilizzo della forza. In sostanza il compito principale degli eserciti è sempre storicamente stato quello di difendere le classi dominanti e i loro interessi, arrivando con l’affermarsi del Capitalismo a livello nazionale e mondiale a difendere sempre più l’interesse del capitale, rimanendo di fatto assoggettati ad esso.
Bisogna cominciare a muoversi seriamente per la costruzione di società non più militarizzate, dove perda di senso l’esistenza stessa degli eserciti e dei corpi paramilitari. Il bisogno della difesa è innanzitutto bisogno di difesa dalle logiche di guerra e da chi le sostiene e le organizza. Basta dunque con l’esistenza degli eserciti, di ogni base militare e di caserme su tutti i territori. La lotta contro le basi militari non può limitarsi a non volerle dalle proprie parti, per tutti i problemi di presenza territoriale che comportano, bensì deve chiaramente esprimersi per il ripudio della loro esistenza da qualsiasi parte. Bisogna inoltre cominciare a lottare per la fine della ricerca tecnologica e della costruzione di armi. La richiesta forte di riconversione delle industrie di armi in luoghi di fabbricazione e costruzione di cose utili a vivere meglio e in pace è sempre più urgente. Se il pacifismo vuole veramente essere coerente e diventare efficiente, deve così collegarsi a logiche e a pratiche generali di emancipazione e di ricerca di nuovi modelli di vita e di convivenza, fondati sulla solidarietà, su relazioni reciproche e condivise e avulsi da logiche di sopraffazione, di egemonia e di dominio.