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giovedì 26 maggio 2016

Scritti sulla violenza di Malatesta Errico

Comizio di Errico Malatesta a Pisa, 31 gennaio 1920
Gli anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea centrale dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale; è l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi ed a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società. Ma se un galantuomo dice che egli crede che sia una cosa stupida e barbara il ragionare a colpi di bastone e che è ingiusto e malvagio obbligare uno a fare la volontà di un altro sotto la minaccia della rivoltella, è forse ragionevole dedurre che quel galantuomo intende farsi bastonare e sottomettersi alla volontà altrui senza ricorrere ai mezzi più estremi di difesa? La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità comincia il delitto. Lo schiavo è sempre in stato di legittima difesa e quindi la sua violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata solo dal criterio dell’utilità e dell’economia dello sforzo umano e delle sofferenze umane. (“Umanità Nova”, 25 agosto 1921).

Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per sé stessa un male. Deve essere violenta perché sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a rinunciarvi volontariamente. Deve essere violenta perché la transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa degli uomini. (“Umanità Nova”, 12 agosto 1920)

Noi siamo per principio contro la violenza e perciò vorremmo che la lotta sociale, finché lotta vi sarà, si umanizzasse il più che sia possibile. Ma ciò non significa punto che noi vorremmo che essa lotta sia meno energica e meno radicale, ché anzi noi riteniamo che le mezze misure riescono in conclusione a prolungare indefinitamente la lotta, a renderla sterile ed a produrre insomma una più grande quantità di quella violenza che si vorrebbe evitare. Né significa che noi limitiamo il diritto di difesa alla resistenza contro l’attentato materiale ed imminente. Per noi l’oppresso si trova sempre in istato di legittima difesa ed ha sempre il pieno diritto di ribellarsi senza aspettare che lo si prenda a fucilate; e sappiamo benissimo che spesso l’attacco è il più valido mezzo dì difesa. Ma qui vi è di mezzo una questione di sentimento – e per me il sentimento conta più di tutti i ragionamenti (“Fede”, 28 ottobre 1923).

Autonomia operaia e autonomia dei proletari

Sono circa due anni che i giornali del Kapitale italiano (tutte le sue tendenze, dal Tempo all'Unità) sbraitano contro un nuovo gruppo: Autonomia Operaia, autore a loro dire di tutte le provocazioni e delle azioni teppistiche compiute negli ultimi tempi. In questi giorni poi la campagna giornalistica (soprattutto da parte della sinistra capitalistica) contro i provocatori si è accentuata poiché in fase di ristrutturazione il capitale italiano non può sopportare l'attività  sovversiva dei compagni che non intendono più pagare sulla propria pelle il prezzo delle varie crisi capitalistiche o meglio il prezzo dell'esistenza capitalistica stessa. Compagni che sono usciti dalla logica politica dei partiti o gruppetti stalino-leninisti e che superando la falsa sfera della politica, alienante e separata, portano avanti un discorso basato sull'esigenza di negare la sopravvivenza capitalistica, la dittatura spettacolare-mercantile che il dominio reale del capitale ha imposto. Storicamente la classe operaia nei momenti di esplosione rivoluzionaria ha sempre mandato affanculo i preti radical-borghesi socialisti, sedicenti comunisti, che erigendosi a suoi rappresentanti si erano innalzati i propri templi imponendo ai protetti il pellegrinaggio dopolavoristico. Fin dalle sue origini la classe operaia ha trovato momenti di organizzazione e di collegamento al di là degli schemi delle varie organizzazioni radical-borghesi, non ha certo aspettato il messia rivoluzionario per reagire al capitalismo. Ha saputo trovare propri mezzi e modi: dagli scioperi selvaggi agli atti di sabotaggio. Cominciando dal 1811 in Inghilterra con il movimento Luddista, prima e grossa espressione dell'autonomia operaia, passando per il giugno 1848 con le giornate del proletariato rivoluzionario parigino, continuando con La Comune e con i movimenti del '900 con la rivoluzione sovietica (fino a quando rimane tale), fino al '68. In queste esperienze il proletariato ha però superato l'ambito riduttivo delle rivendicazioni economico-politiche; o meglio nel momento in cui il capitale superando la fase di dominio formale ha instaurato il suo dominio reale, il proletariato e con esso i proletarizzati ha cominciato un discorso totale contro il suo essere proletario (o proletarizzato), contro il lavoro, contro la sopravvivenza capitalistica rifiutando la sfera separata della politica. Concludendo si può parlare dell'autonomia degli operai che tendono a negare la loro sopravvivenza in quanto tali e ad affermare la loro vita in quanto comunisti, dell'autonomia dei proletarizzati che negano la società spettacolare-mercantile ponendosi contro di essa (al di fuori non ci crede nessuno). Cosa diversa è invece l'organizzazione Autonomia Operaia, rimasta interna alla logica politica, all'ideologia marx-leninista, all'ipotesi del partito rivoluzionario, negando il contrasto tra i due concetti: di partito, che implica una ideologia, una struttura verticale, dei quadri dirigenti, dei militari, dei simpatizzanti, degli iscritti, dei militarizzati e dei non...; e di rivoluzionario, che nega tutto ciò e afferma se stesso, il proprio corpo, le proprie esigenze (comuniste). Questi compagni (Aut. Op.) partono da una realtà rivoluzionaria: l’esigenza di sviluppo autonomo di bisogni proletari, per riproporre tuttavia la militanza rivoluzionaria (professionale) e il partito, con l'unico risultato di incanalare queste esigenze rivoluzionarie negli schemi capitalistici della politica e dell'ideologia. Pur muovendosi da premesse anti-revisioniste (il rifiuto della figura coscienziale del partito e l'innesco del movimento autonomo) l'autonomia operaia organizzata fa rientrare il partito dalla finestra, burocratizzando lo stesso concetto di autonomia.

(Volantino di: Neg/azione 1976)

Vogliamo giustizia di Bill Ayers

Le questioni importanti, certo, rimangono irrisolte: cosa ci chiede il sogno di giustizia sociale? Quali sono ora gli ostacoli alla nostra umanità? E come dobbiamo vivere?
L'affermazione Vogliamo giustizia ha per me il senso assoluto che ha sempre avuto e, per ciò, aggiungere Però, certo, non con ogni mezzo mi sembra che equivalga a mettere la testa sul ceppo. Come tattica, casomai, ma non come principio.
Diciamo che gli ingiusti sono particolarmente potenti, come spesso è accaduto nel nostro mondo, e impongono rapporti sociali che causano sofferenza. Ribadiscono che gli oppositore che faccia sul serio verrà incarcerato o giustiziato. Insistino a concedere solo proteste pacifiche, prevedibili e inderogabilmente circoscritte, e fanno osservare questo precetto con manganelli, pallottole e lacrimogeni. Si assicurano il monopolio del potere, il privilegio esclusivo della violenza, e la usano. 
Ci svegliamo di soprassalto e vediamo uomini nelle cui mani stanno grandi apparati tecnici e le leve del potere, pronti a distruggere il mondo. La vita e la sua continuità non sono più garantite e, perciò, devono essere immaginate, scelte e conquistate con la lotta.
Non stiamo vivendo, possiamo esserne certi, sulle montagne, in tempi rivoluzionari, e questo è un dato di fatto. Viviamo a valle - tempi di incertezza e confusione, tempi di endemica irreparabilità e di sempre più profonda disperazione. Sono tempi in cui bisogna rimanere svegli e coscienti, raccogliere le forze, studiare e costruire i nostri progetti, apportare ogni modesto contibuto, per soffiare lievemente sui tizzoni della giustizia - e ricordare. 

giovedì 19 maggio 2016

I giorni infuocati della rabbia di Bill Ayers

Il serpente della rabbia era stato liberato nel mondo e affondò appassionatamente i suoi denti acuminati nei nostri cuori infuocati, mentre il potere e la corruzione giacevano uno accanto all'altra nell'erba alta lungo il sentiero dell'ira. 
Una rabbia incontrollabile - potendo frenesia di fuoco e lava, che esplodeva dalla cima della montagna e proseguiva a capo fitto in un assalto furioso, caotico e inarrestabile - soffocava fiumi e sommergeva tutto quello che incontrava nel suo disastroso percorso, fino a quando non si fosse esaurita.
Furia purificante, come un laser bianco e incandescente incideva l'illusione, scavando un tunnel sottile che arrivava diritto fino all'essenza delle cose. Furore illuminante, appassionato e penetrante, che eliminava ogni dubbio e distrazione, il nostro attimo splendente di lucida e assoluta certezza.
Memoria maligna, crudele, provocante, illusoria - che si dimena sfuggente, che lusinga, implora e spesso tormenta. ma tutto alla fine si confonde, si riduce in cenere e io non posso ricordare neanche metà delle cose. 
Questo filo intorno al mio dito? è una piccola miccia questi sono i giorni febbrili e infuocati della rabbia.

IM A COUNTRY BOY dei Lynyrd Skynyrd

La città di New York è mille miglia lontana
e tu mi chiedi, e ti dirò che va bene,
adesso non sto cercando
di mettere giù la grossa mela
perché non hanno bisogno
di un uomo come me in città,
io raccolgo il cotone
giù per la linea Dixie,
lavoro duramente tutto il giorno
cercando di fare dieci centesimi.
Ma questo va bene, a me sta bene,
perché tutto va secondo i piani,
le difficoltà delle città non mi colpiscono,
sono un ragazzo di campagna,
sono felice come di più non si può essere,
non mi piace che il fumo soffochi la mia aria
ed alcuni di quei tipi di città, bene, a loro non importa,
non mi piace che le automobili
mi girino intorno,
non voglio neppure
un pezzo di cemento nella mia città,
mi piace la luce del sole,
aria pulita, fresca
mi fa sentire come se non ti possa interessare
ma ad ognuno il suo posto,
le difficoltà della città non mi toccano,
perché io sono un ragazzo di campagna
felice come di più non si può essere,
lascia che ti dica una cosa,
lascia che ti dica il vero:
quello che è giusto per me
potrebbe essere giusto per te,
tu vivi a modo tuo
e io vivrò a modo mio,
e spero che tu sia felice tutto il tempo;
io raccolgo il cotone
giù per la linea Dixie
lavoro tutto il giorno
cercando di fare dieci centesimi.
Ma tutto ciò va bene,
va bene per me.
Questo è il modo in cui dovrebbe essere
I tempi duri della città non mi toccano,
io sono un ragazzo di campagna,
felice come di più non si potrebbe essere.



Situazionista per caso di Ken Knabb

Con Ron Rothbard cominciammo a guardare al mouvement in modo critico e a intraprendere qualche modesta iniziativa: Vantando il nostro anarchismo con gli amici, ordinando pubblicazioni per la diffusione locale, portando bandiere nere alle manifestazioni. Scoprimmo ben presto qualche altro gruppetto di anarchici e insieme formammo un gruppo di discussione che valutò la possibilità di aprire una libreria a Berkley. Il mio primo scritto pubblico fu un volantino, diffuso fra qualche dozzina di amici e conoscenti, nel quale mi sforzavo di far conoscere gli aspetti anarchici di Kenneth Rexroth (i suoi lavori indicano la familiarità con temi che spaziano dall'anarchia, alla pittura, alle religioni del mondo, alla filosofia e letteratura cinese classica) e Gary Snyder (poeta, ambientalista, saggista e conferenziere statunitense, spesso associato alla Beat Generation, descritto come il poeta dell'ecologia profonda ed è uno dei precursori dell'eco-poesia.).
Leggendo alcuni testi anarchici recenti, Ron e io incappammo in diverse menzioni dell'Internazionale Situazionista, piccolo gruppo d'una certa notorietà che aveva giocato un suo ruolo nel corso della rivolta del Maggio 1968. Mi ricordavo di aver letto qualche testo situazionista l'anno precedente, ma non l'avevo evidentemente messo a fuoco bene. Un breve colpo d'occhio mi aveva dato l'impressione che si trattasse soltanto d'una ulteriore variante dei sistemi ideologici europei (marxismo, surrealismo, esistenzialismo, ecc.) che ci sembravano giocattoli oramai esauriti dopo la psichedelia. Nel dicembre del 1969, in una libreria, capitammo nuovamente su qualche brochure situazionista, ma questa volta leggemmo con maggiore attenzione.
Fummo immediatamente scossi dalle tecniche di propaganda e dalla grande differenza stilistica con la maggior parte degli scritti anarchici. Lo stile ci sembrava strano e tortuoso ma insieme provocante, concepito evidentemente più per demolire le abitudini e le aspettative della gente che per convertirla a una prospettiva libertaria vaga e passiva. restammo dapprima perplessi, ma a una rilettura cominciammo gradualmente, discutendo i testi, a capirne la logica. I situazionisti sembravano l'anello mancante tra i differenti aspetti della rivolta. Mirando a una rivoluzione sociale d'una radicalità sconosciuta alla maggior parte dei gauchisti, attaccavano nello stesso tempo le assurdità della cultura moderna e la noia della vita quotidiana, riatizzando la fiaccola dei dadaisti e dei surrealisti. totalmente iconoclasti, rigettavano ogni ideologia, utilizzando senza scrupoli ogni idea che trovassero pertinente. Ferma restando la tradizionale opposizione anarchica allo Stato, avevano sviluppato un'analisi globale della società moderna, una pratica organizzativa anti-gerarchica e portavano un coerente attacco contro i mezzi che il sistema adotta per trasformare la gente in spettatori passivi. (Il loro nome derivava dal loro obbiettivo originario, quello di creare situazioni aperte e partecipative, in opposizione alla spettacolarizzazione  artistica). Infine, e non meno importante, rifiutavano energicamente ogni politica vittimistica, vale a dire tutte le idee basate sul sacrificio rivoluzionario, la flagellazione e il culto dei martiri.

giovedì 12 maggio 2016

Possibile e Virtuale

Possibile è una dimensione del divenire che non appartiene logicamente nè ontologicamente all'evolversi prevedibile della realtà presente. 
Virtuale è invece una condizione che si trova iscritta con carattere di necessità logica all'interno di una configurazione presente dell'Essere. Una configurazione dell'Essere contiene in forma virtuale ciò che si svilupperà, ciò che al momento attuale non vediamo, ma che è destinato a dispiegarsi, se la realtà non interrompe la parabola dell'istanziazione, atto che porta il virtuale a manifestarsi ed emergere nell'istante.
Virtuale è quel punto che pur non essendo presente nella nostra visione attuale si trova nel prolungamento dell'attuale parabola del presente. Virtuale e possibile, dunque differiscono concettualmente.
Nel concetto di possibile non è implicita alcuna necessità, alcuna consequenzialità, alcuna implicazione. Possibile è una dimensione del divenire che va liberata dalle forme implicite nel presente, dalla costituzione necessitante del mondo attuale, se vogliamo che emerga nella luce della realtà.
Il possibile appartiene alla sfera del pensabile, ma il potere si incarica di impedirne l'emergenza nella luce del reale. Chiamiamo potere il sistema di costrizione che mira a ridurre il reale entro il necessario e dunque eliminare possibilità per imporre virtualità. Utopia è la liberazione di un possibile che attualmente è impossibilitato a esprimersi dalla costituzione necessitante (ma non necessaria) del mondo.
Vi è qualcosa che noi non possiamo vedere eppure vediamo. Qualcosa che non possiamo dire eppure diciamo. Inpossibile è quel che non si vede, e quel che non si vede non lo si vede per effetto di una modellazione dell'immaginario.
A un certo punto l'area del possibile si allarga, l'area del pronunciabile si allarga, l'area del visibile si allarga.
E da questo allargamento dell'enunciazione sbucano fuori il movimento, l'antiautoritarismo, il rifiuto del lavoro operaio, l'egualitarismo, l'esplosione della parola irrealistica che si fa immaginario, che si vita quotidiana.

MANGIARE POESIA di Mark Strand

Mi cola inchiostro dagli angoli della bocca.
Non c’è contentezza come la mia.
Ho mangiato poesia.
La bibliotecaria pensa di avere le traveggole.
Ha gli occhi afflitti
e cammina con le mani tra le pieghe del vestito.
Le poesie sono svanite.
La luce è fioca.
I cani sono sulle scale della scantina e salgono.
Roteano gli occhi,
le zampe bionde bruciano come stoppie.
La povera bibliotecaria comincia a battere i piedi e piange.
Non capisce.
Quando mi inginocchio e le lecco la mano,
urla.
Sono un uomo nuovo.
Le ringhio contro e abbaio.
Faccio le feste felice nel buio libresco.

Il carattere secondo Wilhelm Reich

Sulla scia della lotta pratica e teorica contro le resistenze in analisi, Reich giunse con una totale consequenzialità a concepire il carattere (la nevrosi caratteriale) come la forza stessa di queste resistenze. Contrariamente al sintomo, che si deve considerare come un prodotto ed una concentrazione del carattere e che viene avvertito come un corpo estraneo che provoca una sensazione di malattia, il tratto caratteriale è una componente organica della personalità. Il fatto che manchi la coscienza della malattia è un segno fondamentale della nevrosi caratteriale. Ciò spiega perché questa degradazione dell’individualità poteva apparire solo all’interno di un tentativo di comunicazione, la tecnica analitica stessa, che, per quanto unilaterale, doveva ben presto rivelare il carattere per quello che è: una difesa contro la comunicazione, una deficienza della facoltà di incontro. Questo è il prezzo pagato alla funzione primaria del carattere: la difesa contro l’angoscia. Non c’è bisogno di soffermarsi sull’origine dell’angoscia, sulle sue cause e sulla permanenza di queste. Diciamo semplicemente che la forma particolare del carattere è una piega che si prende prima del decimo anno di età, cosa che non sorprenderà nessuno.
La discrezione di questa disposizione spiega la sua sottovalutazione in quanto flagello sociale, così come la sua durevole efficacia. La disposizione in oggetto produce individui degradati, spossessati al massimo grado di intelligenza, socievolezza e sessualità, e di conseguenza davvero indipendenti gli uni dagli altri, il che è l’ideale per il funzionamento ottimale del sistema automatico della circolazione delle merci. L’energia che l’individuo può impiegare per riconoscere ed essere riconosciuto è legata nel carattere, cioè impiegata a neutralizzare sé stessa.
In tutte le società in cui regnano le condizioni moderne di produzione, l’impossibilità di vivere prende individualmente la forma della morte, della follia o del carattere. Con l’intrepido dottor Reich, e contro i suoi recuperatori e detrattori atterriti, postuliamo la natura patologica di ogni tratto caratteriale, cioè di ogni cronicità nel comportamento umano. Ciò che ci interessa non è la struttura individuale del nostro carattere, né la spiegazione della sua formazione, ma l’impossibilità della sua applicazione alla costruzione di situazioni. Il carattere non è dunque una semplice escrescenza maligna che si potrebbe trattare separatamente, ma anche un rimedio individuale in una società globalmente malata, rimedio che consente di sopportare il male aggravandolo. La gente è in gran parte complice dello spettacolo imperante. Il carattere è la forma di questa complicità.
Noi sosteniamo che la gente può dissolvere il proprio carattere solo contestando la società nella sua interezza; essendo la funzione del carattere quella di adattarsi allo status quo, la sua dissoluzione è preliminare alla critica globale della società. Bisogna rompere con questo circolo vizioso.
La contestazione globale inizia con la critica in atti del lavoro salariato secondo un principio fondamentale indiscutibile: «non lavorate mai». Le qualità di avventura assolutamente necessarie per una tale impresa sono esclusive del carattere. Il carattere è la rovina di queste qualità. Il problema della contestazione della società intera è dunque anche il problema della dissoluzione del carattere.

giovedì 5 maggio 2016

L’ANARCHIA di Emma Goldman

L’Anarchia stimola le persone a pensare, a indagare, ad analizzare ogni proposizione; ma affinché la capacità mentale del lettore medio non venga sottoposta a sforzi eccessivi, comincerò con una definizione che poi elaborerò.
ANARCHIA: La filosofia di un nuovo ordine sociale basato sulla libertà, senza restrizioni provenienti da leggi emanate dall’uomo; la teoria che tutte le forme di governo sono basate sulla violenza, e sono quindi sbagliate e dannose, oltre che inutili.
Il nuovo ordine sociale si fonda, naturalmente, sulla base materialistica della vita; ma mentre tutti gli anarchici sono d’accordo che il male maggiore oggi è di natura economica, sostengono anche che la soluzione a questo male può essere trovata solo prendendo in considerazione ogni ambito della vita: individuale, oltre che collettivo; interno, oltre che esterno.
Un esame approfondito della storia dello sviluppo umano rivela due elementi in grave conflitto l’uno con l’altro; due elementi che soltanto adesso iniziano a essere compresi, non come estranei l’uno all’altro, ma intimamente legati e veramente armoniosi, se solo collocati nell’ambiente adatto: gli istinti individuali e sociali. L’individuo e la società stanno da tempo immemore conducendo una battaglia inesorabile e sanguinaria, lottando per la supremazia, perché sono stati a lungo incapaci di comprendere l’uno il valore e l’importanza dell’altro. L’istinto individuale e sociale - il primo un fattore potentissimo dell’impegno individuale verso la crescita, l’aspirazione e la realizzazione di sé; il secondo un fattore altrettanto potente per la sollecitudine reciproca e il benessere sociale. Non occorre andare lontano per trovare una spiegazione della tempesta che imperversa in seno all’individuo, e tra l’individuo e l’ambiente che lo circonda. L’uomo primitivo, incapace di comprendere il proprio essere, ancor meno l’unità di tutte le forme di vita, si sentiva totalmente dipendente da forze oscure e cieche, sempre pronte a farsi gioco di lui. Da quell’atteggiamento nacque il concetto religioso dell’essere umano come un semplice granello di polvere dipendente da forze superiori, che possono essere rabbonite solo da una resa totale. Tutti gli antichi miti si basano su quell’idea, che continua a essere il leitmotiv delle storie bibliche che trattano della relazione dell’uomo con Dio, con lo Stato, con la società. Ancora e ancora lo stesso ritornello, l’uomo è nulla, i poteri sono tutto. Così Jeovah era disposto a sopportare l’uomo solo a condizione di una resa totale. L’uomo può aspirare a tutte le glorie terrene, ma non deve diventare cosciente di sé. Lo Stato, la società e le leggi mortali cantano tutti lo stesso ritornello: l’uomo può aspirare a tutte le glorie terrene, ma non deve diventare cosciente di sé.
L’Anarchia è la sola filosofia che offre all’uomo la
consapevolezza di sé; che sostiene che Dio, lo Stato e la società non esistono, che le loro promesse sono nulle e vuote, visto che possono essere mantenute solo dalla subordinazione dell’uomo. L’Anarchia insegna quindi l’unità della vita; non solo nella natura, ma nell’uomo. Non esiste alcun contrasto tra gli istinti individuali e sociali, non più di quanto esista un conflitto tra il cuore e i polmoni: il primo è il contenitore di una preziosa linfa vitale, il secondo il custode ell’elemento necessario a mantenere l’essenza pura e forte. L’individuo è il cuore della società, conservando l’essenza della vita sociale; la società è il polmone che distribuisce l’elemento necessario a mantenere l’essenza vitale (cioè l’individuo) pura e forte.
L’Anarchia è la grande liberatrice dell’uomo dai fantasmi che lo hanno tenuto prigioniero; è l’arbitro e il pacificatore delle due forze dell’armonia individuale e sociale. Per realizzare quell’unità, l’Anarchia ha dichiarato guerra alle influenze perniciose che hanno finora impedito la miscelatura armoniosa degli istinti sociali e individuali, dell’individuo e della società.

IL PASTO NUDO di David Cronenberg

New York, 1953. Bill Lee stermina scarafaggi per mestiere, ma la moglie Joan usa il suo insetticida per drogarsi. Il dottor Benway, al quale chiede un parere, gli dà una polvere che dovrebbe liberare Joan dalla sua dipendenza. In realtà, si tratta di un allucinogeno che porterà i due ad un rapporto con la realtà del tutto alterato. Bill uccide - con ogni probabilità involontariamente - la moglie e fugge da New York nella enigmatica Interzona, dove perde del tutto il senso dello spazio e del tempo. Adopera una macchina per scrivere che gli parla e che gli rivela di essere un agente segreto incaricato di dargli una missione: scoprire gli agenti nemici che vivono nella stessa città. Conosce i Frost, una coppia di scrittori americani, di cui lei è la sosia della moglie morta. Incitato dai due, scopre la città, caratterizzata dai misteriosi Mugwump, mostri che convivono tranquillamente con gli uomini, e incontra un ragazzo del luogo, Kiki, di cui diventa amante. Tra i tanti personaggi, che hanno sempre qualcosa da nascondere o da cui fuggire, circola anche l'effeminato Cloquet che farà l'amore con Kiki. Quando tenterà di fuggire dalla claustrofobica Interzona insieme a Joan Frost, Bill verrà fermato al confine dove sarà costretto a ripetere l'omicidio della moglie.
Liberamente composto ed ispirato a particolari fasi della vita dell’autore William S. Burroughs, il decimo film del canadese Cronenberg può essere assimilato solo con la stessa visionarietà ed eccentricità ermetica che ha contraddistinto la fonte d’ispirazione. Il regista Canadese infatti, attinge soprattutto dalla (bio)bibliografia più difficile ed ambigua dell’autore, considerata da molti addirittura illeggibile ed antiletteraria. Quello che Burroughs ha compiuto nella droga è stato un vero viaggio letterario che lo ha trasformato in insetto, la mutazione che Cronenberg non poteva non avvertire nell’impatto con suoi testi più rappresentativi. Ed in questa mutazione William Lee ci si immerge completamente, vivendola, ripudiandola, assuefacendosi. Ma a che cosa si va man mano assuefacendo Bill? Che cosa rappresenta veramente la polvere nera del millepiedi, la carne nera? È la carne stessa del tossico, Bill si assuefa alla sua condizione di tossico, “la Carne Nera è come un formaggio guasto, irresistibilmente delizioso e nauseante al punto che chi la divora mangia e vomita e mangia di nuovo finché non crolla esausto”.
Omosessualità, uso della droga e comportamento artistico riaffiorano continuamente nella vicenda. Il pasto nudo è un inferno fatto di dolore, solitudine, alienazione e, soprattutto, dipendenza.
Il regista canadese non parla delle visioni che può avere un drogato, ma si immerge in esse, disorientando e infine collegandosi all'origine proprio negli ultimi minuti del film, formando un discorso completo e raffinatissimo. Il film amplifica la denuncia metaforica della società americana come mondo repressivo e violento, dove diversità e solitudine sono insieme la colpa e la pena.
Un film che potrebbe benissimo essere una metafora dell'operato della CIA, e di tutte le organizzazioni segrete che con le loro oscure manovre stanno catapultando il mondo verso il nuovo ordine mondiale.
Truman Capote considerava Burroughs un dattilografo dotato di forbici e carta: un esploratore di ritagli e di sovrapposizioni, potremmo dire, seguace del principio di cut-up di cui Naked Lunch era il primo grande esemplare in letteratura. Niente di più vicino al cinema, e al cinema di Cronenberg, a quella attitudine cioè di creare linee di associazioni tanto più autentiche quanto più invisibili o così frequentemente rimosse dall’essere umano. Far coincidere il racconto di un’allucinazione con un processo di dilatazione dalla coscienza.


Le attività sostitutive

Usiamo il termine "attività sostitutiva" per designare un'attività diretta verso un obiettivo artificiale che le persone si prefiggono semplicemente per avere uno scopo per cui lavorare, o lasciateci dire, semplicemente per la soddisfazione che provano raggiungendolo. Ecco un metodo empirico per identificare attività sostitutive.Nella società industriale moderna e necessario solo un minimo sforzo per soddisfare i bisogni primari. E' sufficiente passare attraverso un programma di addestramento per acquisire qualche piccola abilita tecnica, quindi andare al lavoro in orario e compiere uno sforzo molto modesto per mantenere il lavoro. I soli requisiti sono una quantità moderata di intelligenza, e, piu di tutto, semplice obbedienza. Se uno possiede questi requisiti, la società si prende cura di lui dalla culla alla tomba, (si, esiste una sottoclasse che non puo ritenere che le sue necessita fisiche siano garantite, ma stiamo parlando della maggioranza della società). Così non sorprende che la società moderna sia piena di attività sostitutive. Queste includono il lavoro scientifico, l'attività sportiva, il lavoro umanitario, la creazione artistica e letteraria, la scalata ai vertici aziendali, l'acquisizione di denaro e beni materiali molto oltre il necessario, e l'attivismo sociale quando si indirizza verso temi che non sono importanti per la vita personale dell'attivista, come nel caso di attivisti bianchi che lavorano per i diritti delle minoranze non bianche. Queste non sono sempre attivita sostitutive tout court, visto che per molti esse possono essere motivate in parte da altri bisogni che superano la semplice necessita di avere qualche scopo da perseguire. Il lavoro scientifico puo essere motivato in parte da un desiderio di prestigio, la creazione artistica dal bisogno di esprimere sentimenti, l'attivismo sociale militante dall'ostilita. Ma per la maggior parte delle persone queste attivita sono in gran parte attività sostitutive. Per esempio, la maggioranza degli scienziati sara probabilmente d'accordo che la soddisfazione che ricevono dal loro lavoro è più importante del denaro e del prestigio che guadagnano.