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giovedì 30 luglio 2015

Un mondo nuovo

Abbiamo bisogno di un mondo nuovo da opporre al mondo dei bisogni creato dal capitale. Questo mondo si fonda sulla praticabilità dei nostri desideri. L’atto del produrre, in senso libero, non può essere disgiunto dall’avvenuta soppressione del lavoro in quanto tale, verso una riscoperta del gusto artistico soppresso dalla produzione del consumo massificato. Quindi, partiamo dalla reintegrazione in ciascun individuo di tutte le sue facoltà, manuali e intellettuali, trasformando l’attività umana in attività libera e creativa. Concepiamo lo sviluppo produttivo, come un fine in se di accrescimento di libertà materiale, per se stessi e nel contempo per gli altri individui liberatisi dal peso delle costrizioni e rivolti esclusivamente, con passionalità, a praticare la realizzazione di tutti i propri singolari desideri.
Una società anarchica è, e sarà definibile una volta che noi ci saremo liberati dal peso di tutte le gerarchie interne ed esterne e avremo abbattuto tutti gli ordinamenti statali-capitalisti. Sarà definita quando ognuno sarà posto nella condizione materiale di potere seguire liberamente, senza alcuna ingerenza autoritaria, le sue particolari e inimitabili inclinazioni, fuori da tutti i tabù e da ogni genere di catene e inibizioni sociali.
E’ logico che questo modo di vedere la questione del vivere individuale e sociale porti a dar corso a nuove e più attraenti forme di vita liberata. In sostanza, l’utopia anarchica è un invito rivolto agli uomini per vivere la propria vita da protagonisti e non da anonime comparse, dentro il corso vivo degli avvenimenti interni ad una umanità non più popolata da fantasmi, ma da individui in carne ed ossa, divenuti finalmente consapevoli della necessità che l’unico ordine sociale che si può riconoscere è quello in armonia con il proprio movimento di vita, con la propria incessante ricerca di libertà e di desideranti orizzonti.
La vita, nel suo movimento, non ha alcun fine preordinato, siamo noi a riempirla di senso nel momento stesso in cui cerchiamo di viverla compiutamente.

LA COLONNA DURRUTI

La Colonna anarcosindacalista è nata nella rivoluzione. Guerra e rivoluzione sono per noi un solo inseparabile atto. Altri possono discutere in maniera ricercata o astratta. La Colonna Durruti conosce soltanto l’azione ed in essa impariamo. Siamo empirici e crediamo che l’azione fornisca comprensioni più chiare di un programma preordinato che evapora nella furia dell’operare.
La Colonna Durruti è costituita da lavoratori, da proletari di fabbrica e di villaggio. Gli operai catalani delle fabbriche sono partiti con Durruti, a loro si sono uniti i compagni della provincia. I lavoratori agricoli e i coltivatori diretti, persi i propri villaggi, tormentati e umiliati dai fascisti, li hanno lasciati di notte per attraversare l’Ebro. La Colonna Durruti cresce con la terra che conquista e libera. E’ nata nei quartieri operai di Barcellona, oggi essa comprende tutti gli strati rivoluzionari di Catalogna e Aragona, di città e campagna.
I compagni della Colonna Durruti sono militanti della CNT-FAI. Molti di loro hanno scontato nelle prigioni le proprie convinzioni. I giovani si conoscono a partire dalle juventudes libertarias.
I proletari agricoli e i piccoli coltivatori unitisi a noi sono fratelli e figli di chi è ancora oppresso dall’altra parte. Scrutano al di là verso i loro paesi. Molti dei loro congiunti, padri e madri, fratelli e sorelle furono uccisi dai fascisti. I contadini gettano sguardi, con rancore e speranza, fin dentro i propri villaggi. Ma non lottano per il casale e il podere, combattono per la libertà di ognuno. Ragazzi, quasi fanciulli, fuggirono verso di noi, orfani, i cui genitori furono assassinati. Questi ragazzi sono dalla nostra parte. Parlano poco ma hanno capito molto e presto. Di sera, intorno al fuoco da campo, ascoltano i più anziani. Parecchi non sanno scrivere né leggere. I compagni li istruiscono. La Colonna Durruti tornerà dal fronte senza analfabeti. Essa è una scuola.
La Colonna non è organizzata né in maniera militare né burocratica. E’ cresciuta organicamente a partire dal movimento sindacalistico. E’ una formazione socialrivoluzionaria, non è una truppa. Costituiamo un’associazione di proletari oppressi, tutti in lotta per la libertà. La Colonna è opera del compagno Durruti che ne determinò lo spirito e sostenne la libera natura fino all’ultimo istante. Fondamento della Colonna sono la bontà dello spirito cameratesco e la spontanea autodisciplina. Scopo della sua azione è il comunismo, nient’altro.
Noi siamo i comunisti sindacalisti, ma conosciamo il significato dell’individuo, vale a dire: ogni compagno possiede gli stessi eguali diritti e adempie gli stessi doveri. Nessuno è superiore ad un altro, ognuno deve sviluppare ed offrire il massimo della propria persona. I tecnici militari consigliano ma non ordinano. Forse non siamo strateghi, certo siamo combattenti proletari. La Colonna è forte, un fattore significativo del fronte poiché è formata da uomini che da molto perseguono un’unica meta, il comunismo, perché è costituita da compagni che da tempo sono organizzati sindacalmente e lavorano in modo rivoluzionario. La Colonna è una comunità sindacale in lotta.
La Colonna Durruti è disciplinata mediante un ideale e non attraverso un marcia di parata. Dovunque giunga la Colonna, si collettivizza. La terra è data alla comunità, i proletari della campagna sono trasformati da servi dei cacicchi in uomini liberi. Si passa dal feudalesimo al libero comunismo. La popolazione viene nutrita, sostenuta e vestita dalla Colonna. La Colonna forma, quando si ferma nei villaggi, una sola comunità con la popolazione.
Le basi della nostra Colonna sono fiducia reciproca e collaborazione spontanea. Il feticismo della Guida Provvidenziale, la fabbricazione delle vedettes li lasciamo volentieri ai fascisti. Restiamo proletari armati che volontariamente si impongono un’opportuna disciplina. 

(Tratto dal discorso commemorativo tenuto da Carl Einstein alla radio CNT-FAI di Barcellona.)

La concezione poliziesca della storia

Nel contesto della modernità solo il razionalismo morboso è capace di produrre una concezione poliziesca della storia. Una concezione per la quale i miracoli dell'idealismo sanno contrastare le catastrofi della questione sociale, senza dover ricorrere ad alcuna spiegazione scinetifica. Come ha sostenuto Joseph Gabel, questa concezione poliziesca della storia rappresenta la forma più estrema di alienazione politica e il passo di esordio di ogni ordine giudiziario borghese.
Ecco perchè nei paesi in cui la docilità sociale è una virtù, ogni sovversione è vissuta dalla borghesia come una catastrofe inattesa e immeritata, che non si integra con il corso degli eventi spettacolori che la contraddistinguono. In questo contesto basta leggere un qualunque rinvio a giudizio per vedere fino a che punto il delitto sociale, che non è niente di più dell'irruzione della dialettica nella vita corrente, diventi l'espressione clinica di un mondo reificato che non può ammettere la storia se non come catastrofe. Una catastrofe che, prima ancora di essere sanzionata dal giudizio critico, esprime l'incapacità dello spettacolo a temporizzare il reale e a comprendere la forma di evento, che diviene una forma del vissuto. Un tipico rigurgito della nuova destra europea, infatti, è costituito dalle sue reazioni psicotiche per gli innediti quadri gnoseo-sociologici prospettati dai nuovi scenari sociali. Nel contesto delle forme sociali, la schizofrenia non è solo uno scadimento del senso del vissuto, ma l'effetto prevalente di un narcisismo che ripiega la libido su tutte le sue ossessioni spazio - temporali, che svaluta il reale e costringe a vivere la storia come illusione, vale a dire come ideologia.

giovedì 23 luglio 2015

L’autoorganizzazione locale

Sempre più riformisti oggi convengono sul fatto che avvicinandosi al  peak oil e per ridurre le emissioni di gas bisogna rilocalizzare  l’economia, favorire le produzioni regionali, i circuiti brevi della distribuzione, rinunciare alla facilità delle importazioni da paesi lontani ecc. quello che dimenticano è che la specificità economica di tutto ciò
che si fa localmente è commerciare in nero, in maniera informale; che questa semplice misura ecologica di ri-localizzazione economica implica  niente meno che l’affrancamento dal controllo statale, o la sottomissione  senza riserve.  Il territorio attuale è stato prodotto da secoli di operazioni poliziesche. Abbiamo cacciato i popoli fuori dalle loro campagne, poi fuori dalle loro strade, poi fuori dai loro quartieri e infine fuori dai cortili delle loro case, nella speranza demente di contenere tutta una vita nelle quattro mura sudaticce  del privato. Per noi la questione del territorio non si  pone come per lo Stato. Non si tratta di tenerselo. Si tratta di intensificare localmente le comuni, le circolazioni e la  solidarietà fino al punto in cui il  territorio diventi illeggibile, opaco per ogni autorità. Non è questione di occupare, ma di essere il territorio. Ogni pratica fa esistere un territorio-territorio di spaccio o di caccia, territorio di gioco per bambini, di innamorati o di sommossa, territorio del contadino, dell’ornitologo o dello sfaccendato. La  regola è semplice: più esistono territori che si posizionano su una zona data, più c’è una circolazione fra loro, meno il potere fa presa.  Bistrots, stamperie, palestre, campi incolti, infoshops, mercati improvvisati, kebab, garages, possono sfuggire facilmente alla loro vocazione ufficiale per lasciare spazio alle complicità possibili.
L’autoorganizzazione locale, imponendo la propria geografia alla  cartografia statale, la brucia, la annulla; produce la sua stessa secessione.

L’organizzazione rivoluzionaria

L’organizzazione rivoluzionaria prima di tutto non dovrà considerarsi né essere staccata dalle masse, per conquistare la loro fiducia e non perdere di vista la realtà in cui deve operare. A tale scopo l’organizzazione rivoluzionaria deve da una parte essere a perfetta conoscenza del livello di coscienza delle masse lavoratrici e della problematica da essa più sentita, attraverso i contatti individuali, uno studio generale e sondaggi; mentre, dall’altra, deve giungere, anche mediante un’autocritica severa, alla consapevolezza della propria reale situazione rispetto alle masse, dei suoi successi ed insuccessi, delle proprie prospettive di progressi, e ad uno sviluppo della propria teoria in modo da adattarsi alla potenzialità rivoluzionaria del momento, ed alla ricerca di contatti più vasti e fruttuosi con le masse. Una volta giunta ad un livello di conoscenza soddisfacente, l’organizzazione rivoluzionaria può cominciare ad operare nelle masse, rifiutando ovviamente ogni canale di lotta politica offerto dal sistema (parlamento, sindacati, ecc.) in quanto strumenti creati per la conservazione del sistema stesso e non per la sua distruzione, e facendo opera di convincimento perché le masse rifiutino ogni forma di rappresentanza delegata, ed offrendo alle masse strumenti organizzativi che aboliscano nella prassi qualsiasi forma di delega del potere.
L’organizzazione rivoluzionaria dovrà quindi, oltre che propagandare la sua ideologia (che forse sarà difficilmente assorbita) mettere in risalto le contraddizioni del sistema, ingigantire il malcontento delle masse, inserirsi nelle loro lotte, anche settoriali e riformistiche, portando un nuovo metodo e un nuovo punto di vista per risolverle; dovrà cioè cercare di partire dalle rivendicazioni settoriali (salari, cottimi, ecc.) per tentare di dimostrare che non è con lo scioperino e la riformina che si risolvono i problemi del lavoratori, ma è autogestendo la lotta, contestando il potere alla radice, è cioè, con la rivoluzione che si risolvono i problemi sociali.
Ciò significa elaborare una strategia a tutti i livelli per programmare la propria azione di eversione da offrirsi alle masse come strumento di lotta risultante da un’analisi del momento storico. Tentare di partire dalle rivendicazioni riformistiche per arrivare a dimostrare che l’unica esigenza vera e reale, l’unica soluzione capace di risolvere il disagio è l’autodeterminazione, l’autogestione.

(Tratto da: Documento del gruppo La Comune di Milano, 1968)

Quale città?

Ogni progetto di riforma urbanistica mette in discussione le strutture, quelle della società esistente, quelle dei rapporti immediati (individuali) e quotidiani, ma anche quelle che si pretende d’imporre, attraverso le costrizioni e le istituzioni, a ciò che resta della realtà urbana. In sé stessa riformista, la strategia di rinnovamento urbano diventa forzatamente rivoluzionario, non per forza di cose, ma contro le cose stabilite. La strategia urbana fondata sulla scienza della città, ha necessità di un supporto sociale e di forze politiche per diventare operante.
Ciò significa che conviene elaborare una serie di proposte:
a) un programma politico di riforma urbanistica, riforma non definita dai quadri e dalle possibilità della società attuale, non assoggettata al realismo anche se basata sullo studio della realtà (in altre parole: la riforma così concepita non si limita al riformismo).
b) Progetti urbanistici molto avanzati, comprendenti modelli di forme spaziali e di tempi urbani senza preoccuparsi del loro carattere più o meno utopico o realizzabile (cioè a dire lucidamente utopici). Non sembra che questi modelli possano risultare né da un semplice studio delle città e dei tipi urbani esistenti, né da una semplice combinazione di elementi. Le forme spaziotemporali saranno - salvo esperienza contraria - inventate e proposte dalla prassi. L’immaginazione deve manifestarsi; non l’immaginario che permette la fuga e l’evasione, che trasporta ideologie, ma l’immaginario che si investe nell’appropriazione (del tempo, dello spazio, della vita fisiologica, del desiderio). Perché non opporre alla città eterna città effimere e centralità mobili ai centri stabili? Tutte le audacie sono permesse. Perché limitare queste proposte alla sola morfologia dello spazio e del tempo? Non è escluso che certe proposte riguardino lo stile di vita, il modo di vivere la città, lo sviluppo dell’urbano su questo piano. In queste due serie di proposte alcune saranno a breve, alcune a medio e a lungo termine, queste ultime costituiranno la strategia urbana propriamente detta.

giovedì 16 luglio 2015

Il potere delle cose

La signoria inequivocabile che toglieva tutto a tutti consumava senza residui la sua ricchezza: la miseria era astante, inginocchiata. La ricchezza era la celebrazione, concentrata nell’essenza dei signori, del sacrificio di tutti. L’estrazione di ricchezza dalla miseria trapassava nella pura trascendenza della signoria, specchio chiaro in cui la miseria riconosceva il proprio sacrificio e la sua irreversibilità. Non altro poteva essere distribuito che questa immagine sacra.
Ma quando la miseria astante si riconosce come classe, lo specchio è spezzato: sotto la liturgia della consumazione rimbomba la minaccia del ferro e del fuoco. Perché la minaccia non si materializzi, non diventi il ferro e il fuoco, occorre che il sacrificio perda la sua trascendenza, occorre un’eucarestia che distribuisca l’agnello che socializzi l’espiazione: occorre che il sacrificio si spieghi.
La democrazia borghese, così come tutti i centralismi democratici, non sono altro che questo: eucarestia del dominio, introiezione in ciascuno della figura parcellizzata del dominio, spiegazione (cioè razionalizzazione)del sacrificio (cioè dell’alienazione); liturgia del sacrificio necessario nella grazia (cioè nella responsabilità d’esser schiavi) del ruolo; catechismo della coscienza del ruolo contro la tentazione demoniaca del rifiuto radicale del sacrificio (cioè contro la coscienza di classe e la volontà di negazione totale dell’esistente). Perché l’operazione possa aver luogo, occorre che il potere stesso perda la sua visibilità pura, occorre cioè che si mostri come immagine e somiglianza di ciò che vuole riprodurre identico a sé: mera funzione anonima, macchina, potere senza volto, ragione totalitaria degli insiemi separati: beati i poveri di spirito perché di essi sarà il regno delle cose.
Moltiplicando la violenza attraverso la mediazione del mercato, l’economia borghese ha moltiplicato anche i propri beni e le proprie forze al punto che non c’è più bisogno per amministrarle, non solo dei re, ma neppure dei borghesi, semplicemente di tutti. Essi apprendono, dal potere delle cose, a fare infine a meno del potere.  

LIBERARE I COLORI PER VINCERE L’APATIA di Waka Waka

Non voglio più dover sentire
Qualcosa che muore dentro
Pensare che vivere è solo sopportare
Pensare che vivere è solo
Correre saltare ridere scherzare
Basta pensare che dopo va male
Non posso continuare senza niente
Da fare
Con un mondo da scoprire
Fuori dalle paranoie
Con un mondo da cambiare
Ci voglio almeno tentare
Con un mondo
Buttarsi nel vuoto
Con gli occhi bene aperti
La voglia di ridere e
La voglia di lottare
Buttarsi nel vuoto
Senza tremare
Buttarsi nel vuoto
Per ricominciare
Sentire il sangue che corre
Nelle vene
Senza paura conviene
Andare lontano
Dimenticarsi
Di vivere piano
Correre senza timore
Sfidando il dolore
Buttarsi nel vuoto 
Con gli occhi bene aperti
 La voglia di ridere e
La voglia di lottare
Buttarsi nel vuoto
Senza tremare
Buttarsi nel vuoto
Per ricominciare
Ricominciare a vivere
Ricominciare a amare
Sognare e lottare per cambiare
Inventarsi una vita
Tutta da scoprire
Buttarsi nel vuoto

Sono egoista di Emma Goldman

Sono anarchica perché sono egoista, Mi fa male vedere altri che soffrono. Non lo sopporto. Non ho mai fatto male a un uomo tutta la vita e non credo che potrei farlo. Così, poiché altri soffrono, soffro anch’io. Sono anarchica e dedico la mia vita alla causa, perché solo con l’anarchia si potrà mettere fine a tutte le sofferenze, al bisogno e all’infelicità.
Tutto quello che va male, i crimini, le malattie, tutto è provocato dal sistema in cui viviamo. Dove non c’è denaro e quindi non ci sono capitalisti, la gente non sarebbe costretta a lavorare troppo, non patirebbe la fame, non abiterebbe in abitazioni malsane, tutte cose che fanno invecchiare anzitempo, che provocano malattie, che inducono a delinquere. Per risparmiare un dollaro i capitalisti costruiscono ferrovie scadenti e quando arriva il treno molte persone finiscono uccise. Che cosa vale la loro vita, se il loro sacrificio ha fatto risparmiare denaro? Ma quelle morti significano miseria, bisogno e delinquenza per tante e tante famiglie. Seguendo i principi anarchici noi costruiamo ferrovie migliori; prendiamo la tranvia di Broadway per esempio invece di far passare poche vetture a una velocità spaventosa, per evitare maggiori spese, dovremmo utilizzarne molte a bassa velocità e così non ci sarebbero incidenti. (La linea tranviaria di Broadway fu luogo di frequenti incidenti, soprattutto sulla 33° e sulla 53° strada e nel tratto lungo la 14°, soprannominato curva dell’uomo morto).
Nel nostro ordine di cose, ciascuno uomo farà il lavoro che gli piace e avrà quanto il suo vicino, così non ci potrebbero essere persone infelici e scoraggiate.
L’Anarchia insegna quindi l’unità della vita; non solo nella natura, ma nell’uomo. Non esiste alcun contrasto tra gli istinti individuali e sociali, non più di quanto esista un conflitto tra il cuore e i polmoni: il primo è il contenitore di una preziosa linfa vitale, il secondo il custode dell’elemento necessario a mantenere l’essenza pura e forte. L’individuo è il cuore della società, conservando l’essenza della vita sociale; la società è il polmone che distribuisce l’elemento necessario a mantenere l’essenza vitale (cioè l’individuo) pura e forte.

giovedì 9 luglio 2015

Il prato rivoluzionario

Quando incoraggiamo la gente a coltivare parte del proprio cibo la stiamo incoraggiando a prendere il potere nelle proprie mani. Potere sulla propria dieta, potere sulla propria salute e potere sul proprio portafogli. Penso che questo sia veramente sovversivo perché stiamo dicendo di sottrarre quel potere a qualcun altro, ad altri soggetti sociali che attualmente hanno potere su cibo e salute. (Roger Doiron)

Non c'è niente di particolarmente radicale o rivoluzionario in un prato. Ma comincia a diventare interessante quando lo trasformiamo in un orto. Potremmo dire che l'orticoltura è un'attività sovversiva. Pensare al cibo come a una forma di energia. È ciò che ci alimenta e allo stesso tempo una forma di potere. E quando incoraggiamo la gente a coltivare parte del proprio cibo la stiamo incoraggiando a prendere il potere nelle proprie mani. Potere sulla propria dieta, potere sulla propria salute e un po' di potere sul proprio portafogli. Pensiamo che questo sia veramente sovversivo perché stiamo anche, necessariamente, dicendo di sottrarre quel potere a qualcun altro, ad altri soggetti sociali che attualmente hanno potere su cibo e salute. Pensate a quali possano essere questi soggetti. E guardate anche all'orticoltura come a una sorta di salutare droga di passaggio, potremmo dire, ad altre forme di libertà alimentare. Poco dopo aver iniziato a coltivare gli ortaggi, dici: "Hey, ora ho bisogno di imparare come cucinarli... poi potrei voler imparare a conservare gli alimenti o a cercare il mercato contadino locale nella mia città".
 Ancora una cosa di cui abbiamo bisogno è di non perdere il lato conviviale del cibo. Il cibo è al meglio quando è delizioso. Gli orti possono contribuire a riportare un po' di quella vibrazione di una comunità.
Coltivare un orto sovversivo, è così sovversivo infatti che ha il potenziale per modificare radicalmente l'equilibrio di potere non solo nel nostro paese ma in tutto il mondo.

COLUI CHE TUTTO HA PERDUTO di Ndjock Ngana

Risa di sole nella mia capanna
E le mie donne belle e flessuose
Eran palme alla brezza della sera
Scivolavano i figli sul gran fiume
Come morte profondo
E le mie piroghe lottavano coi coccodrilli
Materna, la luna s’univa alle danze
Frenetico e grave del tam-tam il ritmo
Tam-Tam di gioia Tam-Tam spensierato
Fra i fuochi di libertà

Poi un giorno, il silenzio...
Del sole i raggi parvero oscurarsi
Nella capanna d’ogni senso vuota
Le bocche rosse delle mie donne premevano
Le labbra dure e sottili dei conquistatori dagli occhi d’acciaio
E i figli miei lasciarono la quieta nudità
Per l’uniforme di ferro e di sangue
E più non ci siete, neppur voi
Tam-Tam delle mie notti, Tam-Tam dei miei padri
Le catene della schiavitù han straziato il mio cuore!

Emile Pouget, l'anarchico che inventò il sabotaggio in Francia

Dopo un esilio in Inghilterra introdusse nel sindacato del suo paese i metodi di lotta degli operai inglesi. Una strategia di disobbedienza che corrisponde al più recente slogan lavorare con lentezza. Dopo il varo, nel 1893, delle famose leggi scellerate, la legislazione antianarchica che introdusse in Franca il reato di association malfaiteurs, molti militanti furono costretti a riparare all'estero per sfuggire al carcere. Durante l'esilio a Londra, il sindacalista anarchico Emile Pouget, fondatore nel 1889 del giornale popolare Le Pére Peinard, ispirato al Père Duchesne di Hébert, esponente degli arrabbiati, l'ala sanculotta più radicale della rivoluzione francese, rimase colpito dai metodi di lotta impiegati dal movimento operaio inglese. Quegli anni di dura repressione avevano gettato nel discredito la strategia minoritaria e individualista della propagande par le fait, che aveva conquistato i settori anarchici del periodo. Nel 1892, l'esecuzione di Ravachol aveva aperto l'era degli attentati e delle bombe. Due anni dopo l'anarchico italiano Sante Caserio uccise il presidente della Repubblica francese Sadit Carnot. L'amnistia politica del 1895, seguita all'elezione del nuovo presidente della terza Repubblica, Felix Faure (rimasto alla storia perché folgorato da un infarto fu rinvenuto su un divano dell'Eliseo ancora avvinghiato ai capelli della sua amante, che terrorizzata cercava di riprender fiato), permise a Pouget di rientrare insieme a molti altri militanti e dare vita ad una nuova stagione politica fondata sull'azione di massa e l'intervento sindacale. Ebbe così modo di partecipare alla fondazione della Confédération générale du travail e nel 1896, sul nuovo giornale La Sociale spiegò la teoria del sabotaggio, il sistema dei proletari inglesi che hanno come parola d'ordine: A paga cattiva, cattivo lavoro... L'azione diretta - scriveva nel 1908 - non è fatalmente sinonimo di violenza: essa può manifestarsi in maniera benevola e pacifica o anche molto vigorosa... Contro lo Stato si materializza sotto forma di pressione esterna, mentre contro il padronato, i mezzi comuni sono lo sciopero, il boicottaggio, il labello, il sabotaggio. Nell'opuscolo Le Sabotage, Pouget racconta che il termine sabotaggio deriva da sabot (zoccolo). Sabotage non era in origine un'espressione di lotta sociale ma un termine popolare che non indica affatto l'atto di fabbricare zoccoli, ma al contrario designava un lavoro mal eseguito, fatto a «colpi di zoccoli» appunto. Nel 1897, durante il congresso della Cgt a Tolosa, nel quale Pouget animava la commissione boicottaggio, questa tattica ricevette il battesimo sindacale. In effetti, il sabotaggio in origine altro non era che quanto gli operai scozzesi chiamavano, con un'espressione dialettale, Go Canny (vacci piano!). Una strategia di resistenza che da individuale e spontanea si fa col tempo cultura di lotta consapevole, sempre più fantasiosa e organizzata, diffusasi in Inghilterra nel 1889 e successivamente importata in Francia, nel 1895, dal sindacato dei ferrovieri e poi giunta in America, grazie al passa parola delle lotte dei portuali, durante la stagione dell'Iww. Pouget rammenta anche l'arrivo del sabotaggio tra i lavoratori italiani, impiegato per la prima volta, non certo a caso, dai ferrovieri, facilitati dai contatti e dagli scambi quotidiani con i compagni di lavoro d'oltre frontiera, che nel 1905 praticano lo sciopero dello zelo.

giovedì 2 luglio 2015

Il pensiero di Malatesta

L'approccio di Malatesta è radicalmente diverso rispetto a quello degli altri pensatori anarchici che l'hanno preceduto. Infatti, per molti di questi, l'anarchia ha una base oggettiva, vuoi nella Ragione(Godwin), vuoi nelle leggi della società e dell'economia (Proudhon), vuoi nella natura e nell'evoluzione (Kropotkin). Per Malatesta viceversa, non esiste un dato oggettivo da cui si può ricavare il futuro, quindi l'anarchia non può essere il frutto di un qualcosa che è al di fuori della volontà e del sentimento umano, ma nasce da questi l'anarchia è un'aspirazione umana, che non è fondata sopra nessuna vera o supposta necessità naturale, e che potrà realizzarsi secondo la volontà umana questa aspirazione umana va oltre ogni valenza razionale o teoretica perché deriva da un sentimento, che è la molla motrice di tutti i sinceri riformatori sociali, e senza il quale il nostro anarchismo sarebbe una menzogna o un non senso. Questo sentimento è l'amore per gli uomini, è il fatto di soffrire per le sofferenze altrui. Da qui il concetto che il progresso e la libertà sono il frutto non di leggi immanenti, ma di lotta e di conquista faticosi "la libertà non si conquista e non si conserva se non attraverso lotte faticose e sacrifici crudeli". Tutta la vita specificatamente umana è lotta contro la natura esteriore, ed ogni progresso è adattamento, è superamento di una legge naturale. Il concetto della libertà per tutti, che implica necessariamente il precetto che la libertà dell'uno è limitato dalla eguale libertà dell'altro è concetto umano: è conquista, è vittoria, forse la più importante di tutte, dell'umanità contro la natura. Al di là di questa dicotomia fra natura e cultura, del tutto discutibile, dal momento che non è ancora dimostrato quanto della società umana sia cultura e quanto sia natura e come questi piani interagiscano, quello che importa rilevare è la distinzione malatestiana fra giudici di fatto e giudizi di valore. Questo è in linea con le più recenti acquisizioni del pensiero epistemologico che distingue fra scienze normative e scienze descrittive, le scienze normative appartengono alla sfera dei valori, del dovere o voler essere, mentre le seconde appartengono alla sfera dei fatti, dell'essere. Non si possono dedurre valori dalle descrizioni e dalle previsioni. In sostanza, e qui viene marcata tutta la distanza fra la concezione malatestiana e quella kropotkiniana, la libertà, l'uguaglianza, la solidarietà e tutti i valori dell'anarchia non sono idee giustificate da fatti scientifici e naturalistici, ma categorie che trovano in se stesse, e nella volontà umana, la possibilità di futura realizzazione. Quindi l'anarchismo nella sua genesi, nelle sue aspirazioni, nei suoi metodi di lotta non ha nessun legame necessario con qualsiasi sistema filosofico.

BATTLE ROYALE di Kinji Fukasaku

In un futuro più o meno lontano, con un tasso di disoccupazione del 15%, 10 milioni di persone si ritrovarono senza lavoro. 800.000 studenti boicottarono le scuole. 
La gioventù del futuro è fuori controllo. Indisciplina, violenza e criminalità imperversano nelle scuole del Paese. Gli adulti hanno perso completamente il controllo della società, incapaci come sono di fare il loro dovere e trasmettere valori e insegnamenti corretti ai propri figli. Ecco che il governo deve intervenire con una legge ad hoc (Millennium Educational Reform Act (anche conosciuto come Battle Royale Act). Periodicamente, delle classi di scuola media vengono sorteggiate e con l'inganno condotte su un'isola abbandonata. Qua ragazze e ragazzi vengono costretti a massacrarsi a vicenda per tre giorni, abbandonando qualsiasi regola o morale. Lo scopo è restare in piedi, da soli, allo scadere del terzo giorno: solo l'ultimo a rimanere vivo, infatti, verrà riportato a casa e potrà riprendere la sua vita presumibilmente fortificato dall'esperienza.
Considerato un film maledetto, causa di interrogazioni parlamentari e proteste popolari contro la sua distribuzione, Battle Royale ha visto come al solito al lavoro i censori preventivi, che ne hanno svilito e ridicolizzato gli intenti più alti, riducendo il tutto a una sadica e sanguinolenta operazione pornografica. E se negli Stati Uniti non è mai stato distribuito, in Italia è stato mostrato solo nell'ambito di alcuni festival e non ha mai avuto una distribuzione nelle
sale. 
Il regista Kinji Fukasaku mischia le carte: da una parte mantiene decisa e straziante la sua invettiva contro una società che ha smarrito la direzione giusta, che, pur di trovare un colpevole cui attribuire le responsabilità del decadimento dei costumi, è disposta a immolare i suoi agnelli più teneri e immacolati, i ragazzi, gli studenti, per l'appunto. Ma d'altra parte smorza i toni della satira sociale con vezzi da giocoliere della cinepresa, sorprendenti a maggior ragione se si pensa che ha girato Battle Royale, fra l'altro già malato, a settant'anni compiuti.
Fukasaku, abile confezionatore di film d’azione, dirige per certo uno dei migliori film di fantascienza di sempre, ricordandosi non solo della parte psicologica, ma anche di quella sociale. Battle Royale è una costante lotta tra la forza creativa (e eversiva) dei giovani e quella conservatrice dell’ordine costituito e i personaggi scelti come esempio risultano altamente simbolici.
Ci sono persone che provano piacere nel regalare dolore agli altri.
Ci sono persone che, per non lasciarsi sopraffare, non guardano in faccia nessuno, calpestando legami consolidati da tempo.
Ci sono persone che, prese dal panico, danno fuori di matto.
Ci sono persone che, prese dal panico, decidono di farla finita.
Ma ci sono anche persone che decidono di sacrificarsi per gli altri, incuranti della propria vita.
Ci sono persone tristi, malinconiche, disilluse, ma con ancora una piccola fiammella di bontà dentro, che aspettano qualcuno che arrivi ad alimentarla.
Ci sono persone che fanno di necessità virtù, e cercano di uscire dalla situazione in modo ragionevole possibilmente senza arrecare danno a nessuno.
Ci sono persone che amano, ma non sono corrisposte.
Ci sono persone che amano, ma non hanno il coraggio di dichiararsi.



LA SCUOLA, FORSE

Due riflessioni, per mostrare la sostanziale insensatezza ed inutilità della scuola  così come è organizzata oggi. A cominciare dagli spazi e dai tempi. Le aule scolastiche, per lo più asettiche e fatiscenti, sono organizzate in funzione della mera trasmissione di informazioni dal docente agli studenti, oltre che delle necessità di sorveglianza e di controllo che fanno aggio sulla possibilità di confronto autentico e di comunicazione aperta. È una organizzazione degli spazi che da gran tempo la riflessione pedagogica considera inadeguata ai fini educativi della scuola e che tuttavia sfida i decenni e non pare porre alcun problema a insegnanti, genitori, ministri. La stessa rigidità caratterizza i tempi scolastici, che organizzano la vita dell’istituzione secondo logiche che rispondono ad esigenze di organizzazione razionale, più che ai bisogni degli studenti. Più grave è la rigidità mentale che la scuola trasmette e crea negli studenti. Attraverso il sapere, il mondo, che è complesso e interconnesso, viene fatto a pezzi e ricomposto secondo i criteri di una razionalità lineare che semplifica, ordina, astrae: e tenta di dominare una natura che ha separato dall’uomo come l’oggetto conosciuto dal soggetto conoscente. E’ una conoscenza codificata e sintetizzata nei manuali di testo, che offrono agli studenti una visione del mondo già confezionata, alla quale non resta che adeguarsi. Chi non si adegua è condannato all’insuccesso scolastico. Il quale è un male che va curato con la ripetuta somministrazione di quello stesso insegnamento che ha fallito una prima volta. Che il recupero consista “nella ulteriore, prolungata esposizione al medesimo stimolo” è uno dei «postulati occulti» della scuola. È facile constatarlo. Vi sono scuole che registrano da anni un livello altissimo di insufficienze in alcune classi, e tuttavia non avvertono la necessità di apportare il minimo cambiamento nella didattica: lo studente che non ottiene gli obiettivi viene respinto, e se ciò non dà i risultati sperati, lo si respinge una volta ancora. Il principio è che lo stimolo, è indiscutibile; ciò che va messo in discussione è il suo destinatario. In qualsiasi altro campo, un ripetuto fallimento costringerebbe a rivedere il metodo di lavoro. Non così a scuola. Se si prende qualche provvedimento, è esteriore, non sostanziale. Si potrà, ad esempio, fare un progetto pomeridiano per favorire la motivazione degli studenti meno interessati e con i voti più bassi, lasciando però immutata la didattica al mattino. Il docente che da dieci anni ottiene risultati insoddisfacenti con la metà dei suoi alunni potrà continuare a far lezione senza cambiare nulla (senza che nessuno lo costringa a cambiare nulla: non è escluso, anzi, che molti lo apprezzino per il suo rigore), ma i suoi alunni peggiori potranno fare un corso di teatro o di danza per provare meno risentimento nei confronti della scuola. Con risultati facilmente immaginabili.
D'altra parte, non si educa integralmente una persona disciplinando la sua intelligenza, ma trascurando il cuore e relegando la volontà. La persona, nell'unità del suo funzionalismo cerebrale, è un complesso; presenta vari aspetti fondamentali; è una energia che osserva, un'emozione che rifiuta o accetta la comprensione e una volontà che cristallizza in azioni quanto percepisce e ama.