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giovedì 28 maggio 2015

Decomposizione di tutte le forme sociali


Chiamare società il popolo di estranei in cui viviamo costituisce una tale usurpazione che anche i sociologi, i quali per un secolo hanno trovato in quel concetto il proprio mezzo di sostentamento, pensano  ormai di rinunciarvi. Oggi preferiscono la metafora della rete per descrivere le modalità di connessione di solitudini cibernetiche, le deboli  interazioni conosciute sotto il nome di collega, contatto, amico, relazione o avventura. Accade puntualmente che queste reti si  condensino in ambienti, in cui si condividono però solo dei codici e in cuisi gioca unicamente all’incessante ricomposizione di un’identità.
La decomposizione di tutte le forme sociali è un ottima occasione. È per noi la condizione ideale per una massa, selvaggia, di nuovi concatenamenti e nuove col mondo, impostoci dalla famosa abdicazione sociali è un’ottima sperimentazione di fedeltà. Il confronto genitoriale, ci ha costretti a una precoce lucidità e promette bei momenti di rivolta. Dalla morte della coppia, sorgono inquietanti forme di affettività collettiva, ora che il sesso è logoro, che virilità e femminilità sono abiti usurati, che tre decenni di innovazioni pornografiche hanno esaurito ogni attrattiva per la trasgressione e la liberazione. Quanto di incondizionale attiene ai legami di parentela può infine costituire l’armatura di solidarietà politiche impenetrabili all’ingerenza statale come un accampamento di zingari.
Anche le interminabili sovvenzioni che molti genitori sono costretti a versare a rampolli proletarizzati possono trasformarsi in una forma di mecenatismo in favore della sovversione sociale. In ultima analisi, divenire autonomi potrebbe significare anche imparare a battersi nelle strade, a occupare case vuote, a non lavorare, ad amarsi follemente e a rubare nei grandi magazzini.

L’Autonomia nel movimento ‘77

L’area dell’autonomia fu il piano di consistenza in cui confluirono, si incrociarono, si aggregarono e si dis/aggregarono un gran numero di divenire singolari. 
È l’autonomia delle donne: rifiuto del lavoro domestico, rifiuto di produrre in silenzio e in soggezione la forza-lavoro maschile, autocoscienza, presa di parola, sabotaggio dei mercimoni affettivi; dunque autonomia delle donne rispetto al ruolo femminile e nei confronti della civiltà patriarcale. È l’autonomia dei giovani, dei disoccupati e degli emarginati che rifiutano il ruolo di esclusi, non vogliono più tacere, si presentano sulla scena politica esigendo un salario sociale garantito, costruiscono un rapporto di forza militare per essere pagati senza far nulla. Ma è anche l’autonomia dei militanti rispetto alla figura del militante, nei confronti dei partitini e della logica dei gruppetti, nei confronti di una concezione dell’azione che è un rinvio a più tardi dell’esistenza.
L’autonomia è movimento di diserzione interna, di brutale sottrazione, di fuga incessantemente rinnovata, questa cronica irriducibilità al mondo del dominio è tutto ciò che il potere teme.
Autonomia allora significa: diserzione, diserzione dalla famiglia, diserzione dall’ufficio, diserzione dalla scuola e da ogni tutela, diserzione dal ruolo maschile, femminile, civile, diserzione da tutti i merdosi rapporti ai quali ci crediamo obbligati, diserzione senza fine.  Salvaguardare il movimento da tutti quelli che lo spiano, lo pedinano, lo seguono da lontano, sperando in un modo o nell’altro di capitalizzare il dispendio energetico della fuga;  i gestori, i maniaci della riterritorializzazione, i fabbricanti di mode sui cadaveri delle nostre invenzioni, i capitalisti illuminati e altri simili farabutti.
L’autonomia ha creato i presupposti per il passaggio dalle lotte sui luoghi di lavoro alle lotte sul territorio, la ricomposizione di un tessuto etico, la riappropriazione dei mezzi per vivere, lottare e comunicare.
Autonomia come Separ/azione che significa: “non abbiamo niente a che vedere con questo mondo. Non abbiamo niente da dirgli, né niente da fargli capire. Le nostre azioni non hanno bisogno di essere seguite da una mirata spiegazione della Ragione umana. Non agiamo in virtù di un mondo migliore, alternativo, a venire, ma di ciò che fin d’ora sperimentiamo, della radicale inconciliabilità tra il capitalismo e questa sperimentazione”.  

Maggioranza e minoranza di Errico Malatesta

Dovrebbe essere ormai chiaro che qualsiasi prevalere di una maggioranza andrebbe rubricato sotto il nome di democrazia, che è cosa strutturalmente diversa dall’anarchia, con buona pace di chi è ancora convinto che siano o possono essere, sinonimi.
Malatesta in pieno fascismo ribadirà le sue convinzioni scrivendo sull’organizzazione anarchica: “Certamente gli anarchici riconoscono che nella vita in comune è spesso necessario che la minoranza si conformi al parere della maggioranza. Quando c’è bisogno od utilità evidente di fare una cosa ed occorre per farla il concorso di tutti, i meno debbono sentire la necessità di adattarsi al volere dei più. Ed in generale, per vivere insieme pacificamente e in regime di eguaglianza, è necessario che tutti siano animati da uno spirito di concordia, di tolleranza, di arrendevolezza. Ma questo adattamento di una parte degli associati all’altra parte deve essere reciproco, volontario, derivante dalla coscienza della necessità e dal buon volere di ciascuno di non paralizzare con la sua ostinatezza la vita sociale; e non già essere imposto come principio e come norma statuaria.
È questo un ideale che forse nella pratica della vita sociale generale sarà difficile a raggiungere in modo assoluto, ma è certo che in ogni aggruppamento umano si è tanto più vicini all’anarchia quanto più l’accordo tra maggioranza e minoranza è libero e spontaneo, e scevro da ogni imposizione diversa da quella che deriva dalla natura delle cose”.

(Tratto da: Un progetto di organizzazione anarchica, in Risveglio, 1-15 ottobre 1927)

giovedì 21 maggio 2015

Un' insurrezione

Un'insurrezione, non vediamo nemmeno più da dove possa iniziare. Sessant’anni di pacificazione sociale, di sospensione di tutti i ribaltamenti storici, sessant’anni di anestesia democratica e di gestione degli eventi hanno indebolito in noi una certa percezione sconnessa del reale, il senso partigiano della guerra in corso. È questa percezione che bisogna ritrovare, tanto per cominciare. Non c’è da indignarsi che si applichi ormai da tempo una legge notoriamente anticostituzionale come quella sulla Sicurezza quotidiana. È vano protestare legalmente contro l’implosione compiuta del quadro legale. Bisogna organizzarsi di conseguenza. Non c’è da impegnarsi in tale o tal’altro collettivo di cittadini, in quella o quell’altra impasse di estrema sinistra, nell’ultima impostura associativa. Tutte le organizzazioni che pretendono di contestare l’ordine presente hanno loro stesse, in versione più posticcia, la forma, i costumi e i linguaggi di Stati miniaturizzati. Tutte le velleità di fare politica alternativa non hanno mai contribuito,sino ad oggi, che all’estensione indefinita dei presupposti statali. Non c’è più da reagire alle novità del giorno, ma comprendere che ogni informazione è un operazione in un terreno ostile di strategie da decifrare nell’informazione apparente. Non c’è più da attendere: un fulmine, la rivoluzione, l’apocalisse nucleare o un movimento sociale. Aspettare ancora è una follia. La catastrofe non è quella che arriva, è quella in corso. Noi siamo situati, d’ora innanzi, dentro il moto di inabissamento di una civiltà. È qui che bisogna prendere parte. Il non attendere, significa in un modo o nell’altro, entrare nella logica insurrezionale. Tutti gli atti di governo non sono null’altro che un modo di non perdere il controllo della popolazione. Noi partiamo da un punto di estremo isolamento, di estrema impotenza. Tutto è da costruire in un processo rivoluzionario. Niente sembra meno probabile di un insurrezione, ma niente è più necessario.

LAWYERS, GUNS AND MONEY di Warren Zevon

Me ne sono andato a casa con la cameriera 
come faccio sempre 
Come facevo a sapere 
che lei stava con i Russi?

Stavo giocando a poker a L'Avana 
ho corso un piccolo rischio 
Manda avvocati, pistole e denaro 
Papà, tirami fuori di qua

Sono il passante innocente 
In qualche modo son bloccato 
tra l'incudine e il martello  (intrappolato tra una roccia ed una superficie dura) 

E sono scalognato 
E sono scalognato 
E sono scalognato

Ora mi nascondo in Honduras 
sono un uomo disperato 
Manda avvocati, pistole e denaro 
Sono nella merda fino al collo (La merda ha colpito il ventilatore)

Manda avvocati, pistole e denaro...

L’AUTORITÀ di Alexandra David Néel

L'obbedienza è morte. Ogni istante in cui l'uomo si sottomette ad una volontà esterna, è un istante estirpato dalla sua vita. Quando un individuo è obbligato a compiere un atto contrario al suo desiderio o quando è gli viene impedito d'agire in funzione del suo bisogno, egli smette di vivere la sua vita personale e, se da un lato colui che comanda aumenta il suo potere nutrendosi della forza di
colui che è sottomesso, colui che obbedisce viene annullato, assorbito da una personalità esterna; diventa nient'altro che forza meccanica, strumento a disposizione di un padrone. Quando si parla dell'autorità esercitata da un uomo su altri uomini, da un sovrano sui sudditi, da un padrone sugli operai, da un proprietario sui propri lavoratori domestici, si capisce immediatamente che egli
impiega la vita dei propri sottomessi per la soddisfazione dei propri piaceri, dei propri bisogni, dei propri interessi: cioè a suo vantaggio, a favore dello sviluppo della propria vita a discapito degli altri. Ciò che in genere si riesce a cogliere in maniera meno chiara, è l'influenza nefasta delle autorità d'ordine astratto: le idee, i miti religiosi e non religiosi, le tradizioni, gli usi e costumi, ecc. qualunque manifestazione esterna dell'autorità ha sempre e comunque origine in un'autorità mentale.
Nessun tipo d'autorità materiale, legata a leggi o individui, trova attualmente forza e ragione in sé stessa. Nessun tipo d'autorità materiale si esercita realmente da sé, tutto si basa su delle idee.
Poiché l'uomo si curva in primis davanti alle idee, riesce ad accettarne in seguito la realizzazione tangibile delle diverse forme del principio d'autorità.
L'obbedienza è composta da due fasi distinte: si obbedisce perché non si può fare altrimenti; si obbedisce perché si crede che bisogna obbedire.
Nel momento in cui un organismo si costituisce, tutte le sue forze tendono verso un unico fine: conservare la sua esistenza personale alimentandola e difendendola contro qualsiasi tipo di influenza in grado di distruggerla o sminuirla.
In natura tutti gli esseri si sforzano verso la vita; tutti ricercano, secondo le proprie facoltà, il godimento ottenuto dalla soddisfazione del bisogno; tutti gli esseri fuggono dalla sofferenza, dalla privazione che è restrizione, diminuzione della vita. La vita universale ci appare come prodotta dal movimento incessante delle individualità molecolari che si aggregano secondo la loro composizione e gli ambienti che incontrano. Allo stesso modo l'uomo cosciente si unirebbe ai suoi simili secondo i suoi bisogni e le associazioni umane si formerebbero, dissolverebbero e riformerebbero seguendo solo la manifesta utilità.
Se la scienza non ci mostra nessuna traccia di governabilità dell'universo, perché immaginare che solo l'uomo debba fare eccezione? Non sarebbe invece più saggio concludere che, liberato da tutti gli ostacoli, egli si comporterebbe come tutti i corpi esistenti in natura: seguendo la legge propria che è in lui, non come un comando proveniente da un'autorità esterna, ma come una necessità del suo essere.



giovedì 14 maggio 2015

L’umorismo come arma rivoluzionaria

L’umorismo è una profanazione perpetua, una costante provocazione del profano al sacro. Laddove l’uomo/donna sa ridere, sparisce l’ombra degli dei.
Ridere del dominio non basta, ma è già l’inizio di una resistenza. Introducendo il dubbio nella sottomissione, l’ironia e il sarcasmo armano i rivoluzionari, aggrediscono il dispotismo e l’ingiustizia, indeboliscono la servitù volontaria. Le risate scavano in anticipo il fosso dove finiscono sepolti i tiranni che l’intelligenza sensibile stana e che gli uomini liberi combattono.
La laicità ideologica della borghesia rivoluzionaria ha avuto il torto di prendersi talmente sul serio dal fare della ragione una dea. 
La morte si instaura nello spirito ogni volta che l’intelligenza sensibile dimentica la sua capacità di ridere della tragedia; la quale del resto si trasforma sovente in farsa dopo che il riso degli uomini ha accolto la sua prima apparizione seria.
La farsa è una tragedia diventata ridicola. Si presenta spesso come un déjà-vu banalizzato di cui gli uomini non riescono a disfarsi. Quando il montare del totalitarismo non è neppure più accompagnato dal divieto formale di ridere del potere, gli uomini della democrazia spettacolare diventano ancora più ridicoli delle loro caricature. 
I re, i preti, i guerrieri, diventati i decisionisti, burocrati e boia nello stesso tempo, restano sempre dei ridicoli “Pères Ubu” ai quali nemmeno il sangue versato dalle loro mani restituisce il senso della vita. Si prendono molto sul serio, perché sono i guardiani dell’assenza di felicità. Sono nudi nella loro terribile armatura ed è per questo che è formalmente consigliato di non parlare troppo del loro culo.
Durante le tristi e ricorrenti epoche di uniformizzazione dello spirito, con la regressione dell’essere in avere, e poi in apparire, la resistenza volontaria della vita contro i suoi nemici si esprime già nella derisione di un mondo intollerabile.
In un contesto pesante, dove tutto diventa stupidamente tragico, banale, ineluttabile, lo spettacolo integrato è oggi una farsa totalitaria organizzata.
L’umorismo contribuisce a preservare fino all’ultimo soffio di vita la possibilità della leggerezza. Mostrare col dito, con la penna o con la matita il ridicolo del potere; ecco qualcosa che favorisce già la vita e apre un cammino al rovesciamento di prospettiva.
Il potere che si esercita sugli uomini sottomessi si indebolisce quando questi alzano la testa con un sorriso sulle labbra. La loro muscolatura si rilassa, le loro smorfie da credenti, da cantanti di inni patriottici e da seguaci di liturgie idiote si disfano. La loro umanità dimenticata ritrova i sensi perduti della felicità, sola luce che continua a guidare donne e uomini in questa effimera e meravigliosa avventura che è la vita.

LA DONNA CHE PULISCE LE LENTICCHIE di Zareh Yaltëzčian

Una lenticchia 
una lenticchia 
delle lenticchie 
una lenticchia 
un sasso 
una lenticchia 
una lenticchia 
un sasso
Una verde 
uno nero 
una verde
uno nero 
un sasso 
una lenticchia verde
Una lenticchia accanto all’altra 
un sasso accanto alla lenticchia 
d’un colpo una parola 
una parola accanto ad una lenticchia
Poi delle parole 
una lenticchia 
una parola 
una parola accanto a un’altra 
poi una favella
E parola dopo parola un folle discorso 
un canto invecchiato 
un vecchio sogno
Poi una vita 
una vita diversa 
una vita accanto a un’altra 
una lenticchia 
una vita 
Una vita facile 
una vita difficile 
perché facile 
perché difficile
Ma le une accanto alle altre delle vite 
una vita 
poi una parola 
poi una lenticchia Una verde 
uno nero 
una verde 
uno nero 
un dolore 
un canto verde
Una lenticchia verde 
uno nero 
un sasso 
una lenticchia 
un sasso 
un sasso 
una lenticchia

(Voci del dolore e del coraggio, dello strazio e della speranza, dell’umiliazione e della grande dignità del popolo armeno, voci che, come i colori compressi dentro il vetro urlano per essere liberate, per raccontare le storie e rompere il silenzio, che voleva soffocare la memoria e nascondere l’orrore del Metz Yeghèrn, del Grande Male)


Decolonizzazione dell’immaginario

Rivalutare significa riscoprire valori nuovi e nuovi atteggiamenti andando incontro, inevitabilmente, ad una diversa visione del mondo e della società. In modo affine, una riconcettualizzazione richiede di significare diversamente alcuni concetti come ricchezza e povertà, rarità e abbondanza. Cambiare i valori rende obbligatorio un conseguente adeguamento dell’ intero apparato produttivo e della gestione dei rapporti sociali, quindi una ristrutturazione completa della società. Questo richiede, necessariamente, l’uscita dal capitalismo e l’inquadratura delle istituzioni sociali in una logica differente. La ristrutturazione della società deve permettere un’adeguata ridistribuzione delle ricchezze e delle possibilità di accesso alle risorse della natura. Uno degli strumenti strategici su cui verte questa trasformazione è la rilocalizzazione delle attività produttive; questa renderà possibile una riterritorializzazione dei luoghi e un più diretto contatto con i prodotti e i mercati vicini.
Decrescita significa anche, ineluttabilmente, riduzione. La riduzione dovrà toccare diversi ambiti: energetico, tramite una riduzione dei trasporti e degli scambi commerciali assurdi; ore lavorative, così da riassorbire la disoccupazione e riscoprire un proprio tempo personale; produzione dei rifiuti, quindi anche dell’obsolescenza (programmata e psicologica) dei beni. Per quest’ultimo punto diventano allora indispensabili pratiche di riutilizzo dei beni che giungano a soppiantare definitivamente la cultura dell’ usa e getta favorendo, al contrario, il riciclo degli oggetti, quindi il recupero di componenti da ritrasformare in materie prime.
Perché tutto questo abbia luogo bisogna necessariamente passare attraverso una decolonizzazione dell’immaginario, un cambiamento di mentalità che permetta, prima di tutto, di far uscire il martello economico dalla testa per approcciarsi a nuovi valori, nuovi modi di intendere il benessere e ad un nuovo atteggiamento verso la terra e la società. 
Questa proposta non è strettamente uno studio economico quanto più un programma pratico e filosofico. Cosa sia la felicità e da quale tipo di ricchezza essa dipenda è l’interrogativo basilare a cui si vuole dare una concreta risposta. Interrogativo che si fa sempre più urgente e necessario.


giovedì 7 maggio 2015

Noi abbiamo ucciso il dovere

"Noi abbiamo ucciso il dovere accioché la nostra brama di libera fraternità acquisti un valore eroico nella vita.
Noi abbiamo ucciso la pietà perchè siamo barbari capaci al grande amore.
Noi abbiamo ucciso l'altruismo perchè siamo egoisti donatori.
Noi abbiamo ucciso la solidarietà filantropica acciochè l'uomo sociale scavi il suo io più segreto e trovi la forza dell'Unico.
Noi distruggeremo ridendo.
Noi incedieremo ridendo.
Noi uccideremo ridendo.
Noi esproprieremo ridendo.
Poichè gli uomini seri sono soltanto coloro che sanno operare ridendo.
E il nostro odio ride...
Ride rosso. Avanti! 
Avanti, per la totale distuzione della menzogna e dei fantasmi!
Avanti, per l'integrale conquista dell'individualità e della Vita!"

(Tratto da Verso il nulla creatore di Renzo Novatore)

QUESTA TERRA È LA MIA TERRA di Hal Ashby

Il film si apre nel luglio 1936, quando la crisi economica spinge la gente del Texas a sognare la fertile California e induce anche Woody Guthrie, pittore di insegne con supposte doti da guaritore, a piantare la famiglia e partirsene in cerca di fortuna. Senza un soldo in tasca, viaggia come clandestino sul tetto dei treni: preannuncio di quel tema del vagabondaggio, insidiato da mille minacce, che poi sarà al centro della sua esperienza di bardo braccato ma sempre ottimista.  Superati alla meglio gli ostacoli che gli pongono le guardie ferroviarie e di frontiera, sfamatosi strimpellando a favore di scioperanti e avventurieri, quando riesce a raggiungere la terra promessa ha subito le sue brave delusioni, perché anche la California è colpita dalla crisi.  Il mestiere d’imbianchino lo aiuta, e una dama di carità che a suo tempo gli offrirà il proprio letto. La vocazione più vera di Woody si rivela però quando un cantante della radio, che alterna le prestazioni professionali ai sopralluoghi nei campi per incitare i braccianti a costituirsi in sindacato, scopre la sua bravura di chitarrista. Gli sgherri dei padroni cercano di impedire alla copia di fare opera di sovversione, sicché le feste tra le baracche finiscono a colpi di manganello, ma non sanno fermare la carriera di Woody. Che prima suona e canta per i lavoratori chini sui campi e per i carcerati, poi a una radio locale, accolto con la simpatia che suscita sempre chi procura buoni affari. Fatta venire dal Texas la famiglia, Woody sarebbe ora ricco, oltreché famoso: basterebbe ubbidisse ai padroni della radio, che gli chiedono di togliere dal suo repertorio tutte le canzoni di protesta sociale. È proprio il contrario di quello che egli vuole, ormai persuaso di dover partecipare in quel modo alla lotta per la giustizia. Sicché, con gran rabbia della moglie che se ne torna nel Texas, dà un calcio al benessere borghese e va in giro per fabbriche e campi a cantare la rivolta. Pestato dai vigilantes torna alla radio promettendo ubbidienza, ma la trasgressione è oramai il suo pane quotidiano. Nemmeno quando un agente gli procura un contratto per una rete radiofonica nazionale Woody accetta censure o di essere venduto come un cantante camuffato da contadino. Perciò chitarra in braccio se ne va verso New York, dove i sindacati hanno già una solida struttura. Va in treno, s’intende, sdraiato sul tetto, perché chi suda e lavora riconosca se stesso nelle sue melodie da giramondo.
“Questa macchina ammazza i fascisti”. Con questa avvertenza incisa sulla chitarra, il cantautore Woody Guthrie ribelle vagabondo della musica folk, ha oggi, agli occhi degli storici il ruolo di interprete schietto dell’anima proletaria e di difensore degli oppressi. Portatore di speranza, rabbia e rivolta nei cuori di tutti gli emarginati e gli sfruttati e dal capitalismo americano.
  

Fermati! Leggi! Rifletti!

Compagno, soldato dell'Armata Rossa! Il tuo commissario e il tuo comandante ti hanno mandato a catturare gli insorti machnovisti. Per ordine dei tuoi capi, distruggerai pacifici villaggi, inseguirai, arresterai e ucciderai gente che ti dicono essere nemica del popolo. Ti dicono che i machnovisti sono banditi e controrivoluzionari.
Ti dicono quello che devi fare, te lo ordinano, non ti chiedono, ma ti mandano, e tu, umile schiavo dei tuoi padroni, vai a catturare e ad uccidere. Chi? Perché? Per che cosa? Pensaci, compagno soldato dell'Armata rossa! Pensaci, operaio e contadino, coinvolto con la forza nella cabala dei nuovi padroni che si gloriano del titolo di potenza operaia e contadina.
Anche noi insorti e machnovisti siamo operai e contadini, proprio come i tuoi fratelli, i soldati dell'Armata rossa. Siamo insorti contro la tirannide e l'oppressione. Lottiamo per una vita migliore e più serena. Il nostro obiettivo immediato è l'instaurazione di una comunità di lavoratori al di fuori dello stato, senza parassiti e commissari burocratici. Nostro fine immediato è l'instaurazione di una ordine di soviet liberi non sottoposti al potere dei bolscevichi né di qualsiasi partito. Per questo il governo bolscevico-comunista invia spedizioni punitive contro di noi. Si affretta a far pace con Denikin, con i possidenti terrieri polacchi e con gli altri porci della Guardia bianca in modo da poter sopprimere più agevolmente il movimento popolare degli insorti rivoluzionari che lottano per gli oppressi e contro il giogo di qualsiasi autorità.
Non temiamo le minacce del comando supremo bianco-rosso. RISPONDEREMO ALLA VIOLENZA CON LA VIOLENZA. Se sarà necessario noi, benché in pochi, metteremo in fuga le divisioni statali dell'Armata rossa. Perché siamo rivoluzionari insorti amanti della libertà e difendiamo una giusta causa.
Compagno, pensaci! Da che parte stai e di chi sei nemico? Non essere schiavo - sii uomo!!!

GLI INSORTI MACHNOVISTI, giugno 1920