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giovedì 26 marzo 2015

L’Occidente e l'individuo in briciole

L’occidente,oggi,è un soldato che espugna Falluja a bordo di un carro armato abraham m1 ascoltando hard rock a tutto volume. È un turista perso nelle pianure della mongolia, preso in giro da tutti, che tiene in mano la sua carta di credito come fosse la sua ancora di salvezza. E’ un manager che giocherebbe sua madre in borsa. E’ una jeune fille che cerca la felicità fra vestiti, ragazzi e creme idratanti. È un militante per i diritti umani svizzero che si rivolge ai quattro angoli del mondo, solidarizza con tutte le rivolte a patto che siano sconfitte. È uno spagnolo che se ne frega della libertà politica in favore di quella sessuale. È un amante dell’arte che da in pasto all’ammirazione stupefatta un secolo di artisti, che dal surrealismo all’azionismo viennese fanno a gara nel chi fa a pagare di più la loro crosta, come fosse l’ultima espressione del genio contemporaneo. E’ un cibernauta che ha trovato nel buddismo una teoria veritiera della coscienza e un fisico molecolare che è andato a cercare nella metafisica induista l’ispirazione per le sue ultime scoperte. L’occidente è la civilizzazione sopravvissuta a tutte le profezie sulla sua fine grazie ad un particolare stratagemma. Come la borghesia ha dovuto negarsi come classe per permettere l’imborghesimento della società, dall’operaio al barone. come il capitale ha dovuto sacrificarsi come rapporto salariale per imporsi come rapporto sociale,diventando così anche capitale culturale e capitale di salute oltre che capitale finanziario. Come il cristianesimo ha dovuto sacrificarsi come religione per sopravvivere come struttura affettiva, come ingiunzione diffusa all’umiltà, alla compassione e all’impotenza, l’occidente si è sacrificato come civilizzazione particolare per imporsi come cultura universale. L’operazione si riassume ad un entità agonizzante che sacrifica il suo contenuto per sopravvivere come forma. L’individuo in briciole si salva solo come forma grazie alle tecnologie spirituali del life coaching.

Il ’68 tra passato e futuro

L’organizzazione rivoluzionaria dell’epoca proletaria è definita dai diversi momenti della lotta in cui ogni volta deve riuscire; e deve anche, in ciascuno di questi momenti, riuscire a non diventare un potere separato. Non si può parlare di lei facendo astrazione delle forze che essa mette in gioco qui ed ora, né dell’azione reciproca dei suoi nemici.
Ogni volta che riesce ad agire unisce la pratica e la teoria che procedono costantemente l’una dall’altra, ma non crede mai di poter realizzare questo suo proposito con la semplice proclamazione volontaristica della necessità della loro fusione totale. Quando la rivoluzione é ancora molto lontana, il difficile compito dell’organizzazione rivoluzionaria é la pratica della teoria. Quando la rivoluzione comincia, il suo difficile compito diventa sempre di più la teoria della pratica della teoria; ma l’organizzazione rivoluzionaria ha assunto allora una conformazione completamente diversa. Là pochi individui sono di avanguardia e devono provarlo con la coerenza del loro progetto generale e con la pratica che permette loro di conoscerlo e di comunicarlo; qui delle masse di lavoratori son del loro tempo e devono mantenervisi in quanto suoi soli possessori, padroneggiando l’impiego della totalità delle loro armi teoriche e pratiche, ed in particolare rifiutando ogni delega di potere ad un’avanguardia separata. Là una dozzina di uomini efficaci possono bastare all’avvio dell’auto-esplicazione di un’epoca che contiene in sé una rivoluzione di cui ancora non ha conoscenza e che ovunque le sembra assente ed impossibile; qui bisogna che la grande maggioranza della classe proletaria detenga ed eserciti tutti i poteri organizzandosi in assemblee permanenti deliberative ed esecutive, che non lascino in nessun luogo sussistere alcunché della forma del vecchio mondo e delle forze che lo difendono. La lotta contro le ingiustizie ha smesso di dissimulare ciò che é sempre stata: la conquista da parte degli uomini di una merce che li conquista e rimpiazza con una forma umana - un’astrazione - la realtà vivente che esaurisce. Scendere in strada con le armi della rivendicazione? Per che fare? Per reclamare dei diritti che mi saranno accordati al prezzo di nuove rinunce, mi arricchiranno a mie spese e impoveriranno la mia vita? La gente si é battuta per secoli per l’uguaglianza e prende oggi coscienza che la sola uguaglianza effettiva é il dovere imposto a tutti di sacrificarsi per lavorare, e di lavorare per niente o per così poco, poiché l’avere declina, il potere rende ridicoli e la sopravvivenza si annoia...
Si é dovuta realizzare infine, nella seconda metà del XX secolo, l’utopia del benessere, immaginata dai pensatori prometeici dello slancio capitalista, perché ci si accorgesse che il paradiso dei consumatori era un mortorio climatizzato, gocciolante di noia, di angoscia e di insoddisfazione.
Il movimento del Maggio 1968 non ha soltanto contrassegnato l’atto di fallimento dell’economia e della felicità a credito, ha principalmente portato alla coscienza che il minimo vitale - il diritto per tutti di nutrirsi, di esprimersi, di spostarsi, di comunicare, di creare, di amare - non costituiva lo scopo finale dell’umanità, ma il suo punto di partenza, la materia prima di un superamento senza il quale non c’è che una società disumana.

Uguaglianza nella diversità di Bakunin

È una verità divenuta proverbiale, e che con ogni probabilità non cesserà mai d'essere una verità, che sullo stesso albero non ci siano mai due foglie identiche. A maggior ragione ciò sarà sempre vero riguardo agli uomini, dato che gli uomini sono esseri molto più complessi delle foglie. Ma questa diversità lungi dal rappresentare un danno è, al contrario, come ha molto bene osservato il filosofo tedesco Feuerbach, una ricchezza dell'umanità.
Grazie ad essa l'umanità diviene un tutto collettivo in cui ciascuno completa tutti e ha bisogno di tutti; di modo che questa infinita diversità degli individui umani è la causa stessa, la base principale della loro solidarietà, e un argomento onnipotente a favore dell'uguaglianza. In fondo anche nell'odierna società quando si eccettuino due categorie di uomini, gli uomini di genio e gli idioti, e quando si trascurino differenze create artificialmente dall'influenza di mille cause sociali come educazione, istruzione, posizione economica e politica che si diversificano non solo in ogni strato della società ma quasi in ogni famiglia, si dovrà riconoscere che dal punto di vista delle capacità intellettuali e dell'energia morale, l'immensa maggioranza degli uomini si rassomiglia molto o almeno che essi si equivalgono, perché la debolezza di ognuno sotto un aspetto è quasi sempre compensata da una forza equivalente sotto un altro aspetto, per cui diventa impossibile dire che un uomo tolto da questa massa sia molto superiore o inferiore all'altro.
Nella loro immensa maggioranza gli uomini non sono identici ma equivalenti e perciò uguali.
Non rimangono quindi a disposizione dell'argomentazione dei nostri avversari che gli uomini di genio e gli idioti.
Si sa che l'idiotismo è una malattia fisiologica e sociale. Non dev'essere quindi trattata nelle scuole ma negli ospedali e abbiamo il diritto di sperare che l'introduzione di un'igiene sociale più razionale e soprattutto più preoccupata della salute fisica e morale degli individui, di quella che esiste oggi, e l'organizzazione ugualitaria della nuova società perverranno a far scomparire completamente dalla faccia della terra questa maledetta malattia così umiliante per la specie umana.
In quanto agli uomini di genio si deve innanzitutto osservare che fortunatamente, o se si vuole disgraziatamente, essi non sono mai entrati nella storia se non come rarissime eccezioni a tutte le regole conosciute e non si organizzano le eccezioni.
Noi comunque speriamo che la società futura troverà nell'organizzazione realmente pratica e popolare della sua forza collettiva il mezzo per rendere meno necessari questi grandi geni, meno schiaccianti e più realmente benefici per tutti. Perché non si deve mai dimenticare la profonda sentenza di Voltaire: "C'è qualcuno che ha maggior ingegno del genio più grande, è tutta la gente".

giovedì 19 marzo 2015

Non c’è più da attendere


IN MARCIA ! Un insurrezione, non vediamo nemmeno più da dove possa iniziare. Sessant’anni di pacificazione sociale, di sospensione di tutti i ribaltamenti storici, sessant’anni di anestesia democratica e di gestione degli eventi hanno indebolito in noi una certa percezione sconnessa del reale, il senso partigiano della guerra in corso. È questa percezione che bisogna ritrovare, tanto per cominciare. Non c’è da indignarsi che si applichi ormai da 5 anni una legge notoriamente anticostituzionale come quella sulla Sicurezza quotidiana. È vano protestare legalmente contro l’implosione compiuta del quadro legale. Bisogna organizzarsi di conseguenza. Non c’è da impegnarsi in tale o tal’altro collettivo di cittadini , in quella o quell’altra impasse di estrema sinistra, nell’ultima impostura associativa. Tutte le organizzazioni che pretendono di contestare l’ordine presente anno loro stesse, in versione più posticcia, la forma, i costumi e i linguaggi di Stati miniaturizzati. Tutte le velleità di “fare politica alternativa“ non hanno mai contribuito,sino ad oggi, che all’estensione indefinita dei presupposti statali. Non c’è più da reagire alle novità del giorno, ma comprendere che ogni informazione è un operazione in un terreno ostile di strategie da decifrare; operazione volta a tutti gli effetti a suscitare in tale o tal’altro, tale o tal’atro tipo di reazione. Bisogna considerare questa operazione per quanto riguarda la vera informazione contenuta nell’informazione apparente. Non c’è più da attendere - un fulmine, la rivoluzione, l’apocalisse nucleare o un movimento sociale. Aspettare ancora è una follia. La catastrofe non è quella che arriva, è quella in corso. Noi siamo situati, d’ora innanzi, dentro il moto di inabissamento di una civiltà. È la che bisogna prendere parte, bisogna parteggiare. Il non attendere, significa in un modo o nell’altro, entrare nella logica insurrezionale. È sentire di nuovo, nella voce dei nostri governanti, il leggero tremolio di terrore che non li abbandona mai. Poiché governare non è mai stato altro che rimandare attraverso mille sotterfugi il momento in cui la folla vi appenderà ,e tutti gli atti di governo null’altro che un modo di non perdere il controllo della popolazione. Noi partiamo da un punto di estremo isolamento, di estrema impotenza. Tutto è da costruire in un processo insurrezionale. Niente sembra meno probabile di un insurrezione, ma niente è piu necessario.

Eliseo Reclus e l’anarchia

Secondo Reclus «l’anarchia» è la realizzazione del bene supremo nella storia, non è mai una pura utopia, vagamente riferita a un lontano futuro. Essa è invece presente in ogni occasione in cui gli esseri umani esprimono una tensione verso la libertà e praticano la solidarietà. È quindi una prassi attuabile nell’immediato.
Nella prefazione all’edizione francese del 1892 del libro di Kropotkin, La conquista del pane, Reclus scrive che «la società anarchica sta attraversando ormai da tempo una fase di rapido sviluppo» in quanto la si può ritrovare «dovunque il libero pensiero spezza le catene del dogma; dovunque lo spirito di ricerca rifiuta le vecchie formule; dovunque l’umano si afferma con atti indipendenti; dovunque gli onesti, ribellandosi contro ogni disciplina imposta, si uniscono liberamente per educarsi e per rivendicare, senza alcun padrone, il proprio diritto all’esistenza e al completo soddisfacimento dei propri bisogni». In effetti l’intera storia della lotta per la libertà e per l’autorealizzazione è storia dell’anarchia, pur se spesso «non cosciente di sé». L’anarchia, però, rimanda anche alla visione di una società futura che non presenti più forme di dominio istituzionalizzate e che sappia raggiungere una sintesi senza precedenti di libertà, uguaglianza e spirito comunitario. La teoria anarchica è sempre più considerata come qualcosa che va oltre un semplice antistatalismo, un’opposizione alle costrizioni, una ribellione contro l’autorità. Al suo interno ha sviluppato diverse forme e rappresenta sia una profonda critica a tutte le espressioni del dominio sia una pratica di trasformazione sociale che si fonda sulla cooperazione non autoritaria. Reclus ha dato un notevole contributo allo sviluppo di questa visione positiva di una futura società anarchica.
L’anarchia rappresenta per lui una fonte d’ispirazione ideale che può dare un orientamento alle battaglie del momento. In L’anarchia egli ha riassunto così quest’ideale: «Parità di diritti e reciprocità di servizi», mentre la base dell’etica anarchica viene illustrata con il noto principio «a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue possibilità». L’affermazione dell’anarchia rappresenterebbe dunque la creazione di una società libera, basata sulla reciprocità e la cooperazione, al posto di quella attuale fondata sulla competizione e sullo sfruttamento.
In alcuni casi Reclus appare disposto a elaborare alcune delle istituzioni che potrebbero esistere dopo una rivoluzione sociale.
Al Congresso di Berna della Lega per la Pace e la Libertà nel 1868 propone che la società futura sia una in cui tutte le strutture politiche precedentemente esistenti vengano sostituite dalle associazioni operaie. In quest’ottica, le suddivisioni amministrative esistenti, dalle regioni alle circoscrizioni di quartiere, non sono altro che «strumenti del dispotismo» creati da chi vuole centralizzare il potere. Anche i confini cosiddetti «naturali», pur essendo di indubbio interesse geografico, non vanno sfruttati per frapporre ostacoli tra i popoli. Infatti Reclus arriva a dire che non esiste niente che si possa definire «confine naturale».
Gli individui liberi, egli sostiene, respingeranno tutti i limiti territoriali artificiali e raggiungeranno la «giustizia ideale» riorganizzando la società attraverso «associazioni produttive e gruppi formati da queste associazioni». Le libere associazioni possono corrispondere più o meno alle comunità preesistenti, a seconda della scelta di chi vi fa parte.

Due parole su razzismo e oppressione

L'oppressione è una rete di forze e barriere che non sono sporadiche o occasionali e di conseguenza evitabili, ma collegate sistematicamente tra loro in modo da catturare una persona al loro interno, limitandone i movimenti in qualunque direzione. Essere oppressi è come essere rinchiusi in gabbia: tutte le strade, in ogni direzione, sono bloccate. Pensate alla gabbia di un uccello. Se guardate da vicino uno dei fili metallici che la compongono, non vedrete gli altri. Potete esaminare quel filo da cima a fondo e chiedervi come mai un uccello non voli via ogni volta che lo desidera. Non troverete proprietà fisiche, neanche dopo un attentissimo esame, che rivelino come un filo possa inibire o impedire la fuga di un uccello. E soltanto dopo aver fatto un passo indietro e aver visto tutta la gabbia che capite il motivo per cui l'uccello non può andare da nessuna parte. A quel punto diventa ovvio che l'uccello è circondato da una rete di barriere sistematicamente collegate tra loro, nessuna delle quali costituisce un ostacolo al suo volo in sé eppure la loro combinazione le rende impenetrabili come le pareti di una caverna. L'oppressione può essere effettivamente difficile da vedere e riconoscere: si possono studiare gli elementi di una struttura oppressiva con estrema attenzione senza riuscire a vedere la struttura nel suo complesso e, di conseguenza, riconoscere che ci si trova di fronte a una gabbia. Tale visione dell'oppressione permette di comprendere la distinzione tra i termini oppressione e prevaricazione. Si parla di prevaricazione quando un individuo o un gruppo controlla e intimidisce gli altri con l'uso della forza. La prevaricazione è deleteria in tutte le sue forme, ma non corrisponde sempre all'oppressione. Prevaricazione significa essere bloccati da un unico filo metallico di una gabbia. Per esempio, quando l'unico ragazzo bianco in una scuola di neri viene deriso e percosso, ci troviamo di fronte a un esempio di prevaricazione, non di oppressione. Alcuni lo chiamano razzismo al contrario, ma l'espressione è fuorviante: fa pensare che il ragazzo stia vivendo la stessa esperienza degli studenti neri che crescono in una società dominata dai bianchi, e non è cosi. L'oppressione non è fatta semplicemente di singoli episodi di prevaricazione, pregiudizio o ignoranza. Oppressione vuol dire privilegiare sistematicamente un gruppo rispetto a un altro. Non è possibile che un gruppo più privilegiato sia oppresso da uno meno privilegiato: il razzismo al contrario è perciò una contraddizione in termini. In un certo senso, anche termini come razzismo e sessismo sono fuorvianti, in quanto non mettono in luce il fatto che in ogni episodio di oppressione esista - oltre a quello preso di mira - un gruppo privilegiato. Usando tali espressioni rischiamo di trascurare il ruolo svolto da noi stessi in questi sistemi di oppressione. Il razzismo può sembrare una semplice questione di pregiudizi e ignoranza, mentre in realtà il problema è molto più profondo: si tratta del posto centrale che occupa nella nostra cultura il fatto di avere la pelle bianca, meglio descritta da una definizione come "supremazia dei bianchi". La moderna supremazia dei bianchi è un antico sistema di sfruttamento e oppressione di continenti, nazioni e gente di colore perpetuato a livello istituzionale. I bianchi impongono la loro tirannia sugli altri allo scopo di difendere e preservare un sistema di ricchezze, potere e privilegi. Attraverso un linguaggio che esprime chiaramente questo sistema di dominio, siamo in grado di identificare chi detiene i privilegi e qual è la reale posta in gioco.

giovedì 12 marzo 2015

Il linguaggio è divenuto una merce

Il linguaggio è divenuto costoso. Il suo insegnamento è divenuto una professione ed è oggetto di massicci investimenti. Le parole sono una delle due principali categorie di valori di mercato che compongono il Prodotto nazionale lordo. Si spendono somme di denaro per decidere cosa dire, chi lo deve dire, come, quando e che tipo di persone si vuol raggiungere con il messaggio. Più elevato è il costo di ogni parola pronunciata, maggiore è lo sforzo che viene compiuto per farla risuonare. Nelle scuole la gente impara a parlare come si deve. Spendiamo quattrini per fare sì che i poveri parlino in maniera più simile ai ricchi, i malati in maniera più simile ai sani, i neri in maniera più simile ai bianchi. Spendiamo per migliorare, correggere, arricchire e aggiornare il linguaggio dei bambini e quello dei loro insegnanti. Investiamo per sviluppare i gerghi professionali che vengono insegnati alla università, e altri ancora per dare di quegli stessi linguaggi tecnici un infarinatura ai ragazzi del liceo, giusto quanto basta a farli sentire dipendenti dallo psicologo, dal farmacista, o dal bibliotecario, che parlano scorrevolmente un loro linguaggio speciale. Prima spendiamo per rendere le persone il più possibile monolingui, per far sì che si esprimano esclusivamente nel linguaggio standard colloquiale colto, poi cerchiamo di insegnare loro il dialetto di una minoranza etnica o di una lingua straniera.
Il linguaggio è divenuto una merce e il compito dell'educatore è divenuto quello di addestrare dei venditori di discorso, dotandoli di un certo stock linquistico. La  conversazione si è trasformata in una forma di commercializzazione: acquisto, produzione e vendita. Usiamo parole, idee, frasi, ma non parliamo più.

IO di Pier Felice Stefano Castrale

Ho visto fuggire il mio tramonto
su bibbie e volantini
al fondo di autobus disperati
e correvano in tanti sull’autostrada
inseguiti da paure impetuose
storditi
torce dolenti
mentre tacevano i grilli
alla sera
in cortili di donne di cascina
o appartamenti in penombra
donne di visoni
madonne
solo d’auto e d’amore
e auto – auto roventi di discordia
rodendo l’ora dei nuovi immortali

Bretelle e panini
al commisiarato della quinta zona
uccidendo la vedova in nero
vedova nera?
ridendo
e 100 quartieri in fiamme di tre città soliste
odio la carne bianca
Ora
e le tue gambe distese sul letto
Credo alla bellezza di Semiramide
odio la potenza dei Cesari
amo i nuovi martiri nel cemento – nelle piazze –
nella solitaria morte mentale
Vergogna
e morsi di cani moribondi in paura cronica
Cavalli in casa – scoppiati per altri traguardi
e ragni divorati e donne incandescenti
e strisce stradali
piangenti
urlo
alla mia gente
alle mie catene
porgete le mani – tendete l’orecchio.


Il cinema di Guy Debord

Tecnicamente ed esteticamente, le pellicole di Debord sono fra le opere più brillanti e innovative della storia del cinema. Ma, effettivamente, non sono tanto opere d’arte quanto provocazioni sovversive. A mio parere sono i più importanti film radicali che siano mai stati fatti, non soltanto perché esprimono la più profonda prospettiva radicale del secolo scorso, ma perché non hanno avuto alcuna seria concorrenza cinematografica. Alcuni film hanno rivelato questo o quell’aspetto della società moderna, ma quelli di Debord sono i soli che presentano una critica coerente di tutto il sistema mondiale. Alcuni cineasti radicali hanno fatto riferimento, a parole, allo straniamento brechtiano, cioè ad incitare gli spettatori a pensare ed agire da sé stessi invece di spingerli all’identificazione passiva nell’eroe o nell’intreccio, ma Debord è praticamente il solo che abbia veramente realizzato quest’obiettivo. A parte alcuni lavori di livello nettamente inferiore e che sono stati influenzati da lui, i suoi film sono i soli che abbiano fatto un uso coerente della tattica situazionista del détournement degli elementi culturali esistenti per nuovi obiettivi sovversivi. Il deturnamento è stato spesso imitato, ma nella maggior parte dei casi soltanto in modo confuso e semicosciente, o per uno scopo puramente umoristico. Non si tratta soltanto di giustapporre a caso degli elementi incongrui, ma piuttosto (1) di creare una nuova unità coerente che (2) critica a sua volta il mondo esistente e la sua relazione con questo mondo.
Ken Knabb
Le opere di Debord non sono né discorsi filosofici da torre d’avorio, né proteste militanti ed impulsive, ma degli esami implacabilmente lucidi delle tendenze e delle contraddizioni più fondamentali della società in cui viviamo. Ciò vuol dire che si deve rileggerle (o nel caso dei film, rivederli) numerose volte, ma ciò vuol dire anche che rimangono pertinenti come prima, mentre innumerevoli mode radicali o intellettuali sono apparse e scomparse. Come ha notato Debord nei Commentari sulla società dello spettacolo, nei decenni che sono seguiti alla pubblicazione della Società dello spettacolo (1967) lo spettacolo è diventato più pervasivo che mai, al punto di soffocare praticamente ogni coscienza della storia pre-spettacolare e ogni possibilità anti-spettacolare: “il dominio spettacolare è riuscito ad allevare una generazione piegata alle sue leggi.”

(Ken Knabb Aprile 2003)

giovedì 5 marzo 2015

Cartografia della libertà

Si esacerba il bisogno di una rivoluzione che tuttavia cambia rotta. Non esiste certezza che la rivoluzione sia in arrivo, ma è chiaro, finalmente, che la coscienza della sua necessità si allontana con orrore da qualunque ideologia rivoluzionaria. È così che un primo contatto tra la volontà del soggetto e l’oggettività della natura in cui l’Io s’inventa e si esprime, si manifesta puntualmente nelle forme spontanee della psicogeografia.
È ormai urgente che un’attenta cartografia della libertà sia utilizzata, sotto il controllo del principio di precauzione al servizio della volontà di vivere, per spingere la coscienza pratica a riappropriarsi materialmente, qui e ora, della semplice complessità delle sensazioni e della sensibilità legata a un’intelligenza non separata dai sentimenti, non inquinata dalla confusione né terrorizzata dall’irrazionale.
Poco vale riferirsi ora alla lucidità e alla creatività del passato se non si riconoscono queste qualità per riappropriarsene. Facciamo, dunque, del passato un’esperienza preziosa, evitando di ricadere nelle stesse trappole, nelle stesse manipolazioni.
Non c’è un solo settore dell’esplorazione in cui il parossismo dell’investigazione, spinto dalla carenza della coscienza di sé e dalla nevrosi narcisista, non si sia tradotto in un recupero consumistico e, a fortiori, nichilista.
Troppi individui alienati si sono dimostrati incapaci di un dosaggio soggettivo delle pratiche d’esplorazione e del ruolo attivo strategico dell’eccesso, della forza e del rifiuto.
Non si tratta, infatti, di riappropriarsi semplicemente di un territorio e di una società attraverso delle azioni di guerra o di guerriglia come lo prevedeva, per tutto il ventesimo secolo, l’ideologia putschista della rivoluzione sociale.
È invece imperativo inventare, costruire e organizzare diversamente il territorio psicogeografico che gli schiavi salariati condividono, in un clima di manifesta diseguaglianza, con qualche padrone ben assistito da orde di burocrati mercenari. 

IL DIO NERO E IL DIAVOLO BIONDO di Glauber Rocha

Due contadini del sertao Brasiliano, Manuel e Rosa, si ribellano alle condizioni di vita imposte dallo sfruttamento padronale. Dapprima si uniscono alla folla dei fanatici seguaci di Sebastiao, un santone che, mentre cerca di spingere Manuel all’omicidio, viene ucciso da Rosa. Poi Manuel entra a far parte della banda armata del cangaceiro Corsico, erede del famoso Lampiao. La lotta del cangaceiro contro i proprietari terrieri viene fermata da Antonio Das Mortes, un killer assoldato dai padroni perché uccida il capo del movimento sovversivo. Manuel e Rosa, dopo la morte di Corsico, ricominciano a vagare per il sertao.
Il dio nero e il diavolo bianco può essere considerato il film manifesto del cinema novo brasiliano. Roche mette in pratica in quest’opera, che è la sua seconda, quanto era andato a definire attraverso una lunga attività di organizzatore politico-culturale. Contro il cinema d’importazione, contro le influenze hollywoodiane, si rivendica la riscoperta dei temi nazionali, della cultura popolare, rapportati alla realtà continentale latino-americana. Il sertao è al centro del film e col sertao l’antica sofferenza dei contadini che in quelle terre vivono.
La storia di sottomissione e di violenza subita dalle popolazioni povere del Brasile porta con sé solo episodi di violenza isolata; così è isolata la cruenta rivolta che compiono Manuel e Rosa verso il loro padrone, così è isolata la rivolta del cangaceiro Corsico verso tutti i padroni.
Per Manuel e Rosa, per tutti gli abitanti del sertao, il vero freno della liberazione è l’episodicità del loro gesto. L’istintività della ribellione permette al misticismo religioso di porsi come risposta illusoria e violenta all’ingiustizia. Ma anche la violenza del cangaco Corsico rimane sempre racchiusa nella rivolta, nell’individualità dei gesti che vengono compiuti.
Il cammino verso la liberazione è spezzato, ma nel rapporto dei due contadini, prima col santone Sebastiao (il dio), che svilizza e ingabbia la loro rivolta, poi con il cangaceiro (il diavolo), che la riindirizza verso obiettivi più precisi, si intravede la possibilità di un cammino diverso per raggiungere la liberazione.
“Soltanto una cultura della fame, minando le sue stesse strutture, può superarsi qualitativamente: e la più nobile manifestazione culturale della fame è la violenza. Qui risiede la tragica originalità del cinema novo di fronte al cinema mondiale: la nostra originalità è la nostra fame e la nostra maggior miseria è che questa fame pur essendo sentita, non è compresa. Il nostro è un cinema che si muove in un ambiente politico di fame e che pertanto sofre delle debolezze proprie della sua particolare esistenza.” (Glauber Rocha)

Manifesto del dopo futurismo

Noi vogliamo cantare il pericolo dell'amore, la creazione quotidiana dell'energia dolce che mai si disperde.
L'ironia, la dolcezza e la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia.
L'ideologia e la pubblicità hanno esaltato finora la mobilitazione permanente dell'energie produttive e nervose dell'umanità per il  profitto e per la guerra, noi vogliamo esaltare la tenerezza il sonno e l'estasi, la frugalità dei bisogni e il piacere dei sensi.
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo sia arricchita di una bellezza nuova: la bellezza dell'autonomia. Ciascuno al suo ritmo e nessuno deve essere costretto a correre a velocità uniforme. Le automobili hanno perduto il fascino della rarità e soprattutto non possono più svolgere il compito per il quale furono concepite. La velocità è diventata lenta. Le automobili sono immobili come tartarughe stupide nel traffico cittadino. Solo la lentezza è veloce.
Noi vogliamo cantare l'uomo e la donna che si accarezzano per meglio conoscersi e per meglio conoscere il mondo. 
Siamo sul promontorio estremo dei secoli... Dobbiamo assolutamente guardare dietro di noi per ricordare l'abisso di violenza e di orrore che l'aggressività militare e l'ignoranza nazionalista possono in ogni momento scatenare. Viviamo da molto tempo nella religione del tempo uniforme. L'eterna velocità onnipresente è già dietro di noi, nell'internet, perciò ora possiamo dimenticarla per trovare il nostro ritmo singolare.
Noi vogliamo ridicolizzare gli idioti che diffondono il discorso di guerra: i fanatici della competizione, i fanatici del dio barbuto che ci incita al massacro, i fanatici terrorizzati della disarmante femminilità che c'è in noi tutti.
Vorremmo fare dell'arte forza di cambiamento della vita, vorremmo abolire la separazione fra poesia e comunicazione di massa, vorremmo sottrarre il dominio sui media ai mercanti per consegnarlo ai sapienti e ai poeti.
Canteremo le folle che possono infine liberarsi dalla schiavitù del lavoro salariato, canteremo la solidarietà e la rivolta contro lo sfruttamento. Canteremo la rete infinita della conoscenza e dell'invenzione, la tecnologia immateriale che ci libera dalla fatica fisica. Canteremo il cognitario ribelle che si mette in contatto con il proprio corpo. Canteremo l'inifinità presente e non avremo più bisogno di futuro.