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giovedì 26 febbraio 2015

Il lavoratore non esiste più come persona

Nella net-economy la flessibilità si è evoluta in una forma di frattalizzazione del lavoro. Frattalizzazione significa frammentazione del tempo di attività. Il lavoratore non esiste più come persona. E' soltanto un produttore intercambiabile di micro-frammenti di semiosi ricombinante che entrano nel flusso continuo della rete. Il capitale non paga più la disponibilità del lavoratore ad essere sfruttato per un lungo periodo di tempo, non paga più un salario che copra l'intero campo dei bisogni economici di una persona che lavora. Il lavoratore (macchina che possiede un cervello che può essere usato per frammenti di tempo) viene pagato per la sua prestazione puntuale occasionale, temporanea. Il tempo di lavoro è frattalizzato e cellularizzato. Le cellule di tempo sono in vendita sulla rete, e le aziende possono comprarne tanto quanto ne vogliono senza impegnarsi in nessun modo nella protezione sociale dle lavoratore. Il lavoro cognitivo è un oceano di microscopici frammenti di tempo, e la cellularizzazione è la capacità di ricombinare frammenti tempo nella cornice di un singolo semio-prodotto. 
Questo è l'effetto della flessibilizzazione e della frattalizzazione del lavoro: laddove c'era autonomia e potere politico del lavoro vi è ora totale dipendenza del lavoro cognitivo dall'organizzazione capitalistica della rete globale, dipendenza delle emozioni e del pensiero dal flusso di informazione. Il telefono cellulare può essere visto come la catena di montaggio del lavoro cognitivo.

Io so che la mia testa non sarà l’ultima che mozzerete

Non mi spetta sviluppare qui la dottrina dell’anarchia. Solo voglio accennare al suo lato rivoluzionario, al suo lato distruttore e negativo per il quale compaio innanzi a voi. In questo momento di lotta acuta tra la borghesia e i suoi nemici, io sono quasi tentato di dire col Souvarine del Germinal (Romanzo di Emile Zola): “Tutti i ragionamenti sull’avvenire sono delittuosi, perché impediscono la distruzione pura e semplice e ostacolano il cammino della rivoluzione”.
Dacché un’idea è matura ed ha trovato una formula, bisogna senza più tardare cercarne la realizzazione. Io ero convinto che l’organizzazione è cattiva ed ho voluto lottare contro di essa per affrettarne la sparizione. Io ho portato nella lotta un odio profondo, ogni giorno ravvivato dallo spettacolo nauseante di questa società in cui tutto è basso, tutto è losco, tutto è brutto, in cui tutto è di ostacolo all’espansione delle passioni umane, alle tendenze generose del cuore, al libero slancio del pensiero. Io ho voluto colpire tanto fortemente e tanto giustamente quanto ho potuto.
Io so che la mia testa non sarà l’ultima che mozzerete; altre ne cadranno ancora, perché i morti di fame cominciano a conoscere la strada dei vostri caffè. Atri nomi voi aggiungerete alla lista sanguinosa dei nostri morti. Voi avete impiccato a Chicago, decapitato in Germania, garrottato a Xeres, fucilato a Barcellona, ghigliottinato a Montbrison e a Parigi, ma ciò che non potrete mai distruggere è l’Anarchia. Le sue radici sono troppe profonde; essa è nata nel seno stesso di una società putrida che si sfascia; essa è una reazione violenta contro l’ordine stabilito. Essa rappresenta le aspirazioni egualitarie e libertarie che battono in breccia l’autorità odierna; essa è dappertutto e ciò che la rende inafferrabile finirà coll’uccidervi. 

(Dichiarazione di Emile Henri al processo per gli attentati alla rue des Bons Enfants e al Caffè Terminus – 1894)   

DIALETTICA RADICALE

Il punto di vista della dialettica radicale supera la politica nello stesso movimento in cui, definendola quale strumento esclusivo della controrivoluzione, se ne separa definitivamente.

Dalle aberrazioni ideologiche e clamorosamente controrivoluzionarie come quelle dei movimenti di liberazione nazionale, “sessuale”, delle donne, degli studenti, degli omosessuali, delle minoranze etniche, dei “minorati”, dei drogati, degli operai, dei bambini, degli animali, degli impiegati e delle piante verdi, può scaturire, come in effetti non passa giorno che non scaturisca, la consapevolezza duramente conquistata della reale posta in palio: la liberazione della specie dall’ideologia, il superamento necessario di ogni separazione, la conquista armata del punto di vista della totalità.

Ultimissima, l’ideologia del teppismo e del furto, se supera di fatto gli stilemi obsoleti della politica militante, opera sulla soggettività rivoluzionaria che i comportamenti criminali e genericamente illegali esprimono a livello delle scelte individuali, un recupero che ne scarica all’istante ogni tensione positiva. Non appena si appaghi di essere il trasgressore abituale di ogni norma, il criminale affoga il proprio progetto d’essere nel semplice e caricaturale non essere ossequiente alla normativa in quanto tale, che ne diviene perciò, e semplicemente la norma in negativo: l’avere in luogo dell’essere. La coazione a ripetere è il tratto miseramente maniacale che degrada a routine, e a ripetizione nostalgica, la creatività effettivamente insurrezionale del colpo di mano. 

giovedì 19 febbraio 2015

IL RUOLO

La malattia mentale non esiste. È una comoda categoria per sistemarvi e tenere lontani gli incidenti di identificazione. Il potere taccia di follia quelli che non può né governare né uccidere. Vi si trovano gli estremisti e i monomaniaci del ruolo. Vi si trovano anche quelli che se ne ridono dei ruoli o li rifiutano. 
Il ruolo è quella caricatura di sé che si porta dappertutto, e che dappertutto introduce nell’assenza. Ma l’assenza è ordinata, addobbata, infiorata. Paranoici, schizofrenici, omicidi sadici il cui ruolo non è riconosciuto di utilità pubblica (non è distribuito con il distintivo del potere come quello del poliziotto, di capo, di militare) diventano utili in luoghi speciali, manicomi, prigioni, specie di musei da cui il governo trae un doppio profitto, eliminandovi dei pericolosi concorrenti e arricchendo lo spettacolo di stereotipi negativi. I cattivi esempi e la loro punizione esemplare rendono un po’ più piccante lo spettacolo, e lo proteggono. Basta semplicemente incoraggiare l’identificazione accentuando l’isolamento per distruggere la falsa distinzione fra l’alienazione mentale e l’alienazione sociale.
All’altro polo dell’identificazione, esiste un modo di mettere fra sé e il ruolo una distanza, una zona ludica che è un vero nido di attitudini ribelli all’ordine spettacolare. Non ci si perde mai completamente in un ruolo. Anche invertita, la volontà di vivere conserva un potenziale di violenza sempre pronto a deviare dai cammini che le sono tracciati. Il servo fedele che si identifica al padrone può anche sgozzarlo a tempo opportuno. Viene il momento in cui il suo privilegio di mordere come un cane eccita il suo desiderio di colpire come un uomo.
Il fatto è che l’identificazione, come ogni disumanità, trova origine nell’umano. La vita in autentica si alimenta di desideri provati autenticamente. E l’identificazione mediante il ruolo fa doppio bottino: recupera il gioco della metamorfosi, il piacere di mascherarsi e di trovarsi dappertutto sotto tutte le forme del mondo; fa propria la vecchia passione labirintica di perdersi per meglio ritrovarsi, il gioco di deriva e di metamorfosi. Essa recupera anche il riflesso d’identità, la volontà di trovare negli altri uomini la parte più ricca e più autentica di sé. Il gioco cessa allora di essere un gioco, si mummifica, perde la scelta delle proprie regole. La ricerca dell’identità diventa identificazione.
D’altro canto, il piacere, la gioia di vivere, il godimento sfrenato spezzano e infrangono il ruolo. Se l’individuo volesse considerare il mondo non più nella prospettiva del potere ma in una prospettiva di cui egli sia il punto di partenza, avrebbe presto fatto a scoprire gli atti che lo liberano veramente, i momenti più autenticamente vissuti, che sono come gli spiragli di luce nella grigia trama dei ruoli.  

ANGOSCIA – Kollettivo

Quando messi al muro da un’assurda logica di giudizio
Quando messi al muro da una schifosa potestà accusatrice
Quando c’è ancora chi specula sulla malinconia
Una massa di infami mi vuole togliere l’anima
Una massa di bastardi mi detta i miei diritti
Una massa di dementi applaude al boia di tutti
Aspettando un’altra tempesta di condanne e di doveri
Poche illusioni ormai ed anche ad alto prezzo
Con la testa spaccata sotto il televisore
Con le mani schiacciate sotto il trono di un potere
Un pensiero fulmineo, pochi amici, una ragione
Vino, birra, grida, urla, protesta, ribellione
Come dentro una morsa d’acciaio che dà morte lenta
Un tumulto di sentimenti guida la mia sensibilità
E il mio occhio infuocato veloce nel silenzio
Che sprizza lacrime di rabbia sopra il cemento
Il mio cuore squarciato, la mia mente bollente
Ma i miei nervi accesi sopra la confusione
Tutto grida in me: “voglio il crollo dei vostri concetti”

La rivoluzione come ristrutturazione: MAGGIO 1968

Nelle manifestazioni dei mesi di maggio e giugno 1968, il patrimonio della città di Parigi è stato danneggiato in modo considerevole.
È così che:
- 10.000 m2  di pavé sono stati prelevati dalla strade;
- 35 impianti semaforici sono stati danneggiati;
- 15 lampioni sono stati abbattuti;
- 6 dispositivi d’allarme della polizia e 1 dei vigili del fuoco sono stati distrutti;
- 500 segnali stradali sono stati resi inutilizzabili;
- diverse dozzine di banchi pubblici sono stati fatti a pezzi;
- 96 alberi diverse migliaia di sono stati abbattuti e altri 100 hanno subito danneggiamenti;
- diverse migliaia di griglie degli alberi sono scomparse.
I costi di sostituzione e riparazione dell’insieme dei beni ammontano a 2.500.000 franchi.
Per quanto riguarda i beni privati distrutti o danneggiati, al momento, le domande di danneggiamento raccolte dall’amministrazione riguardano:
- 298 automobili distrutte o danneggiate;
- 276 danni verso immobili e mobili (vetrine spaccate comprese).
Queste cifre sono suscettibili d’aumenti nella misura in cui nuove denunce saranno depositate in vista di un indennizzo.
A questi differenti bilanci è necessario aggiungere i danni che la Prefettura di Polizia ha subito e che possono essere quantificati nel seguente modo:
- 9 caserme della polizia saccheggiate (Commissariato Odéon, Sainte-Avoie, Plaisance, Saint-Thomas d’Aquin, Saint-Germain-des-Prés, Batignolles, Clignancourt, Montparnasse, Vigie Gotte d’Or);
- 3 autoambulanze della polizia incendiate;
- 10 veicoli deteriorati:
- materiale di comunicazione distrutto;
La riparazione per i danni ai locali della polizia verranno a costare 347.000 franchi per i danni immobiliari e 60.000 franchi per i furti mobiliari 

(relations publiques de la Préfecture de Police, settembre 1968)

giovedì 12 febbraio 2015

Il disastro della globalizzazione

Il disastro della globalizzazione fa sì che il dominio reclami un'economia di guerra. E qui cominciano le differenze: il fascismo si produce in un quadro nazionale, e da qui i suoi piani autarchici, le imprese miste, i lavori pubblici, come soluzioni per la disoccupazione ed il suo nazionalismo espansionista. La partitocrazia invece si propone in un contesto neoliberale, per cui la sua pianificazione nazionale obbedisce alle direttive economiche del capitale internazionale, e la sua politica estera si sottomette alla strategia diplomatico militare del grande Stato gendarme del capitalismo, gli Stati Uniti. Da qui, i suoi piani di infrastrutture, di consorzi misti della metropoli-impresa e l'uso del "benessere" come distribuzione discriminatoria di favori clientelari. Contrariamente a quanto succede col fascismo, nella partitocrazia l'utilizzo dell'apparato burocratico a fini privati viene decentrato; e questo avviene a qualsiasi livello dell'amministrazione, non solo nelle alte sfere ministeriali. La partitocrazia non ha bisogno di statalizzare nessun mezzo di produzione, sebbene possa darsi il caso di intervenire con mezzi finanziari, però sempre più a favore dei fondi di investimento internazionali piuttosto che per salvare l'impresa o la proprietà privata autoctona. Certamente si serve della paura come strumento di governo, senza però imporre una politica di terrore, ma una politica di rassegnazione. Per la partitocrazia, i terroristi sono gli altri, i suoi nemici violenti o tranquilli che siano,  contro i quali si impegna a fondo, anche se, in condizioni normali, preferirebbe dissolvere gli antagonismi di classe - invece di criminalizzarli e schiacciarli - sostituendo la compravendita dei leader all'uso della forza e la tecno-vigilanza all'internamento politico. Il fascismo non ammette l'eccezione, mentre la partitocrazia tollera le minoranze ostili fino a quando non diventano problematiche. La comunità illusoria definita dal fascismo della quale bisogna far parte per forza è quella della razza e della nazione che necessita di uno spazio vitale, mentre la comunità partitocratica è la cittadinanza votante che completa le sue necessità spaziali per mezzo del turismo. In virtù dei trattati internazionali che stabiliscono la libera circolazione del capitale, l'espansione dell'economia nazionale non incontra dazi o barriere doganali, potendosi estendere e perfino delocalizzarsi per tutto il mondo, senza necessità di operazioni belliche, salvo quelle richieste per il controllo delle fonti di energia. Di conseguenza, le politiche di "difesa" dei sistemi partitocratici non esauriscono le riserve nazionali in fabbricazione di armamenti, né condannano alla fame la popolazione sottomessa (come avveniva per esempio in Unione Sovietica, e avviene oggi in Corea del Nord). E neppure torturano la popolazione con discorsi e continue manifestazioni di adesione: la pubblicità della merce è assai più efficace dell'ideologia nel mobilitare. Per questo i fascismi ed i totalitarismi hanno quasi sempre finito per fallire e per crollare, vittime delle loro contraddizioni.

UMBERTO SABA - Poesie invernali

Neve
Neve che turbini in alto e avvolgi
le cose di un tacito manto.
Neve che cadi dall'alto e noi copri
coprici ancora, all'infinito: imbianca
la città con le case, con le chiese,
il porto con le navi,
le distese dei prati.....

L’inverno
È notte, inverno rovinoso. Un poco
sollevi le tendine, e guardi. Vibrano
i tuoi capelli selvaggi, la gioia
ti dilata improvvisa l'occhio nero;
che quello che hai veduto - era un'immagine
della fine del mondo - ti conforta
l'intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.

Fior di neve
Dal cielo tutti gli Angeli
videro i campi brulli
senza fronde né fiori
e lessero nel cuore dei fanciulli
che amano le cose bianche.
Scossero le ali stanche di volare
e allora discese lieve lieve
la fiorita neve

Sante Caserio incontra il Presidente Carnot

Lione, 1894, il Presidente francese Sadi Carnot è atteso per l’naugurazione dell’Esposizione Universale.
"Trovai il palazzo della Borsa in cui si celebrava il banchetto in onore del Presidente e, la grande arteria doveva essere la rue de la Republique, la strada che il Presidente doveva percorrere per recarsi alla serata di gala al Teatro Grande. Non mi rimaneva che portarmi dal lato opposto della strada in cui ero. Gli ospiti importanti stanno sempre alla destra da dove arriva il corteo. Gli agenti di polizia disseminati lungo il percorso vietavano il transito. È venuta in mio soccorso una vettura di lusso, il cui cocchiere portava sul petto una placca risplendente. La lasciarono penetrare nello spazio libero, ed approfittando dell’occasione io ed una quindicina di altri spettatori potemmo, seguendola, passare dall’altra parte. La gente che vi si affollava naturalmente protestò contro gli intrusi, ma io dissi chiaramente a quelli che più mi investivano che non desideravo altro che di passare, mi lasciassero penetrare in seconda o in terza fila ne sarei stato contentissimo. Mi aprirono un varco ed io ne approfittai per risalire oltre il terzo od il quarto lampione in direzione del Teatro Grande. Ricordo che un signore, guardando l’orologio, disse che erano le otto e mezza. La folla acclamava una vettura con a bordo tre signore giovani ed una anziana, tutte elegantissime; poi si udirono d’un tratto, squillanti le note della Marsigliese, sulla folla plaudente in orgasmo.
Era quasi fatta. Sfilano prima quattro cavalleggeri. Non so, ma penso che fosse l’avanguardia repubblicana, poi vennero a passo lento altri soldati a cavallo in gruppo di cinque file, da ultimo un trombettiere tutto solo, e davanti alla vettura presidenziale ancora un drappello di cavalieri. 
Nel momento in cui gli ultimi cavalieri della scorta passarono davanti a me, ho sbottonato la giacca, il pugnale stava col manico in alto nella tasca del lato destro all’interno. Ho afferrato il coltello con la mano sinistra e con un solo movimento ho respinto i due giovani che mi stavano dinnanzi e con un salto, mettendo la mano sullo sportello della vettura, ho sferrato il colpo gridando: “Viva la Rivoluzione!” La mia mano aveva toccato l’abito del Presidente e la lama era affondata nel suo petto fino al manico di colore rosso e nero.
Il Presidente Carnot mi guardò in faccia, mentre abbandonavo la vettura gridai ancora “ Viva l’Anarchia” certo di averlo ucciso.
Nella fuga ero passato tra i cavalli della berlina e quelli della scorta prendendo a sinistra un po’ obliquamente e cercando di penetrare la massa di gente che si accalcava sul marciapiede. Ma dietro di me una voce aveva urlato: “Arrestatelo!” e donne e bambini mi sbarrarono il passo. Uno sbirro mi prese per il colletto e mentre mi divincolavo riuscendo quasi a buttarlo per terra, mi vennero addosso una ventina di persone. Ero la loro preda." 



giovedì 5 febbraio 2015

Due parole sul carcere

Il regno odioso delle prigioni non finirà senza che ciascuno impari a non imprigionarsi più in un comportamento economizzato dai riflessi del profitto e dello scambio. Meno l'animalità si ingabbierà nella rigidità del carattere, arrabbiandosi per frustrazioni perpetue, più aprirà le porte del godimento a progressivi affinamenti, e più apparirà a tutti l'orrore di rinchiudere in cella dei condannati che vi languiscono non per i loro misfatti, ma perché esorcizzano i demoni che le persone oneste imprigionano in loro. I progressi che l'umanesimo auspica fanno rabbrividire. Se le prigioni spariranno senza che il godimento sia restaurato nei suoi diritti, esse cederanno soltanto il posto ad istituzioni psichiatriche ariose, in accordo con le terapie che anestetizzano nei condannati al lavoro quotidiano la violenza delle frustrazioni.

Non è forse giunto il tempo di stabilirsi talmente nell'amore di sé che, arrivando ad adeguarsi dal fondo del cuore molta felicità, ci si affezioni agli altri per la felicità stessa che tocca loro in sorte, amandoli per il favore di amare che dispensano a se stessi? Non sopporto di essere abbordato per il ruolo, la funzione, il carattere, l'istantanea che mi fissa e mi imprigiona in ciò che non sono. Quale incontro sperare in un luogo in cui l'obbligo di essere in rappresentazione impedisce sempre che io esista? Mi importa soltanto la presenza del vivente, in cui convergono tutte le libertà che nessun giudizio ha il potere di arrestare. 

LA FESTA PERDUTA di Pier Giuseppe Murgia

In una giornata primaverile del '77, in una Roma centro di tante contraddizioni sociali e culturali, cinque giovani di varia estrazione sociale si incontrano. Frequentano una radio privata allo scopo di proiettare i loro sogni, le loro utopie e la loro ingenua confusione culturale. Alla radio, come in tutti i movimenti, esistono i vari conflitti. Alcuni cercano la creatività, altri puntano alla sfida al potere. Poi, un giorno, irrompe la polizia. Una giovane del gruppo è colpita a morte. Il movimento è disorientato. Prevarrà la scelta dura. 
Seguiamo quindi la vicenda di quattro giovani romani: Luca figlio di un generale; Giovanni, sardo; Sara, insegnante, e Matteo, accomunati dall'odio contro l'ordine borghese, dalla decisione di ricorrere agli espropri proletari e di usare la violenza armata. Questo, dopo scontri violenti con la polizia, durante i quali è stata uccisa la ragazza di Giovanni. Luca è il duro del comando. Sotto la sua guida i quattro terroristi uccidono a sangue freddo due agenti, rompono con i compagni contrari alla violenza, rapinano un ufficio e fuggono a Genova, ove, mentre compiono un esproprio proletario, sono sorpresi dalla polizia e uccisi, eccetto Luca che si rifugia a Parigi dove rendendosi conto della strumentalizzazione che il potere fa della lotta armata e sconvolto dalla morte dei compagni si suicida.
Un film praticamente introvabile, è uno dei primi film sul terrorismo, siamo nel 1977, nel passaggio dalla contestazione alla lotta armata, il film è di una chiarezza e di una sincerità uniche, ci sono molte cose interessanti dentro, delle piccole storie laterali, che descrivono bene la partecipazione iniziale ai diversi movimenti che oggi si chiamerebbero antagonisti, anche con le motivazioni più svariate, e lo scivolare verso scelte radicali, a cominciare dagli espropri proletari per finire alle rapine di autofinanziamento, non fidandosi di nessuno con sempre in agguato le strumentalizzazioni dei gruppi di potere legati ai servizi segreti italiani come esteri, o addirittura nemmeno identificabili.
La festa perduta vince il primo premio al recente Festival di San Sebastiano, nella Sezione «nuovi realizzatori». «Fu un anno — spiega il regista — in cui larghe masse di giovani, tra i diciassette e i ventuno anni, sfociarono, dopo il '68, in un'esplosione contestativa con empito creativo e fantasioso, alla ricerca di una socialità nuova. Via via però, i gruppi cominciarono a spaccarsi e la parte migliore del movimento al suo interno fu scalzata dai propugnatori della violenza. Personalmente, mi rendevo conto in modo drammatico che ragazzi che avevo conosciuto, freschi e vivaci, mi sparivano d'incanto davanti agii occhi, scegliendo la clandestinità. La prima sollecitazione al film è nata, da un fatto emozionale (la morte di Giorgiana Masi), insieme con Domenico Alcotti, che aveva vissuto da vicino quelle esperienze, ho allora iniziato, nel 1977, a scrivere la sceneggiatura cercando di arrivare a comprendere e far comprendere, dal di dentro, quali fossero state, da un lato, le radici dello spontaneismo e, dall'altro, quali potessero essere le motivazioni da cui era scattato il meccanismo che ha condotto una parte di operai e giovani a dirigersi, verso una totale asocialità. Attraverso una narrazione distaccata, che non tende né alla vittimizzazione né alla demonizzazione, soprattutto nulla volendo mercificare, proponendosi un'analisi che dal punto di vista figurativo, si svolge in chiave di ballata metaforica, simbolica per quanto riguarda l'altro versante, e cioè le istituzioni». E la fine di una delle ragazze, non è tanto la molla che porta al trapasso verso la violenza, quanto il momento culminante sia dell'azione ludica sia della repressione. 



L’umanità solidale di Michail A. Bakunin

Sono un amante fanatico della libertà, la considero l’unica condizione nella quale l’intelligenza, la dignità e la felicità umana possono svilupparsi e crescere. Non sto parlando di quella libertà che è puramente formale, concessa, misurata e regolata dallo stato, una menzogna eterna che in realtà non rappresenta nient’altro che il privilegio di pochi fondato sulla schiavitù di tutti; neppure intendo quella libertà individualista, egoista, meschina e illusoria, vantata dalla scuola di J.J.Rousseau, come da tutte le altre scuole del liberalismo borghese, che considera il cosiddetto diritto di tutti, rappresentato dallo stato, come limite del diritto di ognuno, e ciò in effetti porta necessariamente e senza eccezioni alla riduzione a zero del diritto di ognuno.
No, io intendo la libertà che sia veramente degna di tale nome, la libertà che consiste nel pieno sviluppo delle potenze materiali intellettuali e morali le quali si trovano allo stato di facoltà latenti in ognuno; la libertà che non riconosce altre restrizioni all’infuori di quelle che sono tracciate dalle leggi della nostra stessa natura: così, propriamente parlando, in guisa che non vi siano restrizioni, poiché tali leggi non ci sono imposte da qualche legislatore posto forse accanto o al di sopra di noi stessi; esse ci sono immanenti, inerenti e costituiscono la base stessa di tutto il nostro essere, tanto materiale che intellettuale e morale. Invece dunque di trovare in esse un limite, noi dobbiamo considerarle come le condizioni reali e come la ragione effettiva della nostra libertà.
Intendo quella libertà di ciascuno che, lontana dall’arrestarsi come di fronte ad un confine davanti alla libertà altrui, trovi al contrario in quella libertà la propria conferma ed estensione all’infinito; la libertà illimitata di ognuno nella libertà di tutti, libertà nella solidarietà, libertà nell’uguaglianza; libertà trionfante vittoriosa sulla forza bruta e sul principio di autorità che non ne è mai stato altro che l’espressione ideale della stessa forza bruta; la libertà che, dopo aver rovesciato tutti gli idoli del cielo e della terra, stabilirà e organizzerà un mondo nuovo, quello dell’umanità solidale, costruito sulle rovine di tutte le Chiese e di tutti gli Stati.