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giovedì 27 marzo 2014

Il piacere supremo sarà la distruzione

La ricerca di autenticità e di appartenenza a una comunità, sentimenti che ci sono negati al punto che la ricerca diventa disperata. 
Il sentirsi realmente vivi e il senso di appartenenza non hanno quasi cittadinanza in una società in cui le classi col più alto tasso di crescita sono quella dei senzatetto e quella dei detenuti. La vita quotidiana è fatta sempre più di disperazione, depressione e alienazione, intervallate da notizie sull’ultima ondata di omicidi seriali o la più recente catastrofe ecologica globale, consumate come orribili forme di distrazione del vuoto.
Guy Debord ha espresso questa situazione con chiarezza: “Dovrebbe essere ormai chiaro che la condizione di servitù, d’ora innanzi, vuole essere amata di per se stessa, e non più in quanto portatrice di un vantaggio estrinseco. Un tempo poteva ancora essere ritenuta una forma di protezione, ma ora non protegge più da nulla”. Persino gli apparati repressivi si trovano a dover ammettere che si sia giunti a questo: Forbes, organo del capitale finanziario americano, commemorò il proprio settantacinquesimo anniversario con una storia di copertina su Com’è possibile che ci sentiamo così male se le cose vanno tanto bene? La comunità degli psicologi in generale, che non riconosce altra realtà al di fuori dell’individuo, vede messa in discussione la negazione e l’illusione che la caratterizza, ironicamente, proprio dal definitivo impoverimento della dimensione del privato. Appare sempre più chiaro come la scelta sia tra una brama di servitù e una rottura qualitativa con l’intero campo d’azione dell’alienazione.
La realtà attuale è diventata impossibile, e continua a perdere credibilità. Dobbiamo comportarci da outsider, non farci rappresentare, non investire nulla in questa marcia verso la morte che ci chiedono di perpetuare. Il piacere supremo sarà la distruzione di ciò che ci sta distruggendo, sarà abbracciare lo spirito dei Situazionisti, che così replicavano a chi domandava loro in che modo avrebbero distrutto la cultura dominante: “In due modi: inizialmente in modo graduale, poi all’improvviso”.

IT BETTER END SOON – Chicago

Non lo sopporto più, la gente che muore
cercando un aiuto per così tanti anni,
ma nessuno lo sente,
è meglio che finisca presto, amico mio
non c’è l’ha faccio più a sopportare,
la gente odia,
facendo male ai suoi fratelli,
non capiscono,
non possono capire,
è meglio che finisca presto, amico mio.
Hey tutti quanti, perché non date
un’occhiata in giro?
Non potete vedere?
Che cos’è che sta succedendo
perché non usate il tempo
solo per sentire quello che è vero?
Se lo farete vedrete che abbiamo fatto un patto crudo,
loro stanno stanno ammazzando tutti,
io vorrei che non fosse vero,
loro dicono che dobbiamo fare la guerra
o l’economia cadrà
ma se non ci fermiamo non ci saremo più;
stanno rovinando questo mondo,
per me e te i grandi capi di stato,
perché non ci permettono di essere liberi?
Loro hanno fatto le regole una volta ma non ha funzionato,
adesso dobbiamo provarci un’altra volta.
Prima che ci uccidano tutti,
non più morire, non più uccidere, non più morire.
Non più lottare,
non vogliamo morire, no, non vogliamo morire,
per favore lasciateci cambiare il tutto,
per favore facciamolo tutto buono per il presente
e migliore per il futuro.
Auguriamoci l’un l’altro,
dimostriamo pace l’uno per l’altro,
possiamo farlo succedere,
facciamolo succedere,
possiamo cambiare il mondo,
per favore, cambiamo il mondo,
per favore, facciamolo succedere,
per i nostri bambini,
per le nostre donne,
cambiamo il mondo;
venite venite,
per favore,
venite; sta a me,
sta a te
quindi facciamolo adesso, sì, facciamolo adesso;
non la sopporto più la gente che imbroglia
bruciandosi l’un l’altro
sanno che non è giusto, come può essere giusto?
Meglio finire presto amico mio,
meglio che finisca presto amico mio.
  

La trasgressione come sperimentazione di libertà

Quello che si intende per  sperimentazione concreta di libertà e di comunità è tutto dentro la dinamica dell'opposizione ostinata all'esistente societario. La libertà, infatti, può essere sperimentata solo attraverso le forme di negazione materiale dell'illibertà sociale o comunque introiettata individualmente; la comunità reale può essere pre-vissuta come comunità di intenti, di tensioni, di agire. Ciò non è permesso. Per questo la trasgressione assume valenza positiva, seppur degna di smitizzazione e soprattutto di non fissazione. La trasgressione in sé non porta valori comunque umani, ma ne nega altri codificati; se essa, però, si trasforma in riaffermazione differente di ciò che prima ha rifiutato non è altro che forma recuperata, produttiva di comportamento sociale controllabile. La trasgressione cui noi ci riferiamo è quella che contiene tanto la negazione del presente quanto l'allusione al futuro. Non ci interessano certo i ladri che si fanno banchieri né i banchieri che diventano ladri! La trasgressività è quanto, pur prodotto dalla società, tende ad affermare caratteri diversi, antagonici, di comunità. Quando si contrappone il concetto di comunità reale a quello di società - come che si sia storicamente manifestata - non è certo per riprodurre una sorta di guerra di tutti contro tutti, l'homo homini lupus di lontana memoria, né tanto meno per ricordare nostalgicamente le società-comunità primitive (poiché allora effettivamente i due termini si confondevano tra di loro). L'appartenenza reciproca, il riconoscimento delle differenze e la loro corretta valutazione, il superamento di appiattimenti egualitarizzanti, la riscoperta dell'originalità singola e collettiva contro il processo di identificazione: ecco i caratteri dell'essere-vivere comunità, ecco quanto è stato sottomesso e soggiogato dalla forma-società.

giovedì 20 marzo 2014

la follia come distruzione del composto

la follia come distruzione del composto di caos e forma, come assenza d’opera. l’uomo è deterministicamente derivato da una molteplicità di eventi inintelligibili e perciò non deve essere ritenuto moralmente responsabile di nulla. La volontà di potenza garantisce una labile apertura-una possibilità di trascendenza-in cui l’uomo può ricominciare da capo. Tuttavia, costretta tra necessità e libertà, la volontà non è mai radicalmente libera e non può cambiare del tutto il proprio essere-così-e non-altrimenti. Non si può quindi accusare l’uomo per le sue trasgressioni, perché «la nostra addomesticata, mediocre e castrata società», ha reso ammalato l’individuo superiore. La vergogna era quindi un risultato della malattia morale; il senso di colpa, un’invenzione dell’etica giudaico-cristiana. Una corruzione codificata in tratti impressi da molti millenni che ha prodotto una prigione debilitante per il corpo. fantasie sfrenate e pulsioni libidico-distruttive non sono immorali, ma naturali. Le perversioni sono esperienze-limite, punti di non-ritorno, che aprono l’accesso alla dimensione dionisiaca sbarrata all’animale umano. La volontà di potenza è volontà di trasgressione, al di là del bene e del male. Le pulsioni naturalmente crudeli, sono state imprigionate, codificate all’interno dell’uomo e trasformate in nuove pulsioni virtualmente distruttive. L’essere umano non ne è responsabile. La genealogia delle tecniche di controllo delle pulsioni folli è configurata dalla storia della segregazione e clausura sociale inaugurata dall’età classica. Il folle risulta così innocente: la colpa è solo della società, l’unica responsabile del crimine. La nascita della moderna ragione occidentale si annuncia con-chiudendo e rimuovendo lo spazio aperto dall’esperienza della sragione. Nietzsche, come Sade, Holderlin, Nerval, Van Gogh, e a suo tempo Artaud, sono gli araldi del canto lontano della obliata sragione. Le loro opere, freudianamente perturbanti, liberano dalla rimozione le energie animali umane. Irrompono in un delirio di fantasie crudeli e morbose prima di immergersi nel silenzioso abisso della follia o nel tragico abbraccio con la morte. l’Es è sovente raffigurato, nella psicoanalisi, come un oceano, le cui acque agitate e oscure riproducono l’inquietudine della schizofrenia, come nella Nave dei folli di Bosch. Il superuomo è colui che si riappropria dell’assenza, del vuoto sottratto alla pazzia rimossa: coincide con il folle. Foucault in molti dibattiti dell'epoca ribadì, a più riprese, che considerava l'esperienza della follia il punto più vicino alla conoscenza assoluta, prendendo quella nietzscheana come paradigma.

PERCHÈ AUTONOMIA PROLETARIA

“Nessuno deve tacere di fronte all’organizzazione della menzogna unificata, questo è il momento di iniziare a distruggerla”
Il sistema di dominio capitalista sull’esistente sociale attualmente, in Italia come spaccato del mondo, ha modificato le forme (conservandone il senso) della sua gestione: ora siamo alla miseria generalizzata, ed i gestori del potere ne spiegano l’ineluttabilità. La società dell’opulenza, la società cosi detta affluente lascia il passo alla carestia sociale, alla miseria vissuta direttamente dai proletari e giustificata ideologicamente (politicamente, economicamente, matematicamente) dai funzionari del regime. IN REALTA’ la guerra è già scoppiata in modo silenzioso ed estremamente funzionale. È la guerra della merce contro l’uomo, contro la volontà umana di riappropriarsi delle qualità per la vita e delle quantità (oggetti) necessarie a garantirla,. La strategia del sacrificio, della rinuncia, della carestia è la risposta organizzata politica del capitale alle tensioni di Autonomia Proletaria, alle capacità dei proletari e dei proletarizzati di scegliere una via d'uscita dalla sopravvivenza, e per la vita, in modo autonomo dai meccanismi di riproduzione allargata del capitale.
LA CARESTIA è la minaccia concreta cui tutti siamo sottoposti, per aver cercato di scoprire cosa c’era dietro la maschera dell’ABBONDANZA: ancora una volta sfruttamento economico ed ideologico. LA MISERIA è la risposta del sistema alla nostra aggressione continua alla pseudo ricchezza sociale, con gli espropri di massa, con le occupazioni delle case, con l’attacco al salario attraverso la negazione pratica dell’obbligo al lavoro (assenteismo, mutua, riappropriazioni individuali e di massa). Il capitale non può gestire la forza-lavoro perciò usa la sua forza (repressione) per comandare tutti al lavoro (dall’operaio produttore-consumatore di merci, al cittadino creatore-fruitore di comportamenti sociali). LA MISERIA impone la morale del sacrificio; LA CARESTIA la logica della produttività. LA (PARA)NOIA organizzata è il senso della partecipazione alla menzogna/verità dell’esistente sociale. Ma il proletariato sta scoprendo la sua strategia di rifiuto di ogni legge. Questa è la verità di ogni ribellione; ed ogni rivolta deve trovare questa sua verità. Organizzare la nostra risposta sul sociale significa, più che mai, contrapporre la nostra verità di ricostruzione/riappropriazione, alla realtà capitalista di annichilimento/spossessamento. La catena da perdere sono le nostre di/s/graziate abitudini; quelle di cui dobbiamo impadronirci, per stravolgerle, sono quelle di produzione, in fabbrica, o di distribuzione, nella iperorganizzazioni dei mercati. L’Autonomia Proletaria è la scelta sovversiva di ciascuno, è la base di OGNI costruzione liberamente sociale. Contro la crisi capitalistica, e dei suoi amministratori storicamente compromessi, stiamo reinventando le nostre leggi: leggi del piacere, leggi del gioco, leggi dell’erotismo, leggi delle comunicazioni inter/individuale, leggi della riconquista antilegale del valore d’uso etc. Queste leggi prodotte dai proletarizzati e valide solo per essi, sono il significato reale dell’autonomia proletaria. E chi cerca di codificarle, di organizzarle in nome di un partito è ancora una volta un balbuziente che, cantando cerca di celare la sua incapacità di esprimersi correttamente, senza frasi mozze, senza mistificazioni. La cosiddetta area dell’autonomia rischia di divenire un’area di parcheggio di ex-extragruppuscolari trombati che cercano il partito della verginità per crearsi la sufficiente verginità onde riproporre, una volta di più, un qualche nuovo partito. Le armi che offrono costoro sono le usuali armi povere offerte dai mercanti di entusiasmi: le armi necessarie, dalla dialettica al fucile, saprà inventarle autonomamente.
IL VOLTO OSCENO E GHIGNANTE DEL PROLETARIATO DISTRUGGE CON IL SUO APPARIRE LA SERIOSA IMMAGINE DI UN MONDO FONDATO SULL' AUSTERITA’ E SULLA PENURIA
                          Collettivo Informale di Autonomia Proletaria  

(Volantino, ciclostilato in proprio via Milano n°16 Torino, 1977)

Malatesta e gli anarchici

Anarchico è, per definizione, colui che non vuole essere oppresso e non vuole essere oppressore; colui che vuole il massimo benessere, la massima libertà, il massimo sviluppo possibile di tutti gli esseri umani.
Le sue idee, le sue volontà traggono origine dal sentimento di simpatia, di amore, di rispetto verso tutti gli umani: sentimento che deve essere abbastanza forte per indurlo a volere il bene degli altri come il proprio, ed a rinunziare a quei vantaggi personali che domandano, per essere ottenuti, il sacrificio degli altri.
Se non fosse così perché dovrebbe egli essere nemico dell’oppressione e non cercare invece di divenire oppressore?
L’anarchico sa che l’individuo non può vivere fuori della società, anzi non esiste, in quanto individuo umano, se non perché porta in sé i risultati dell’opera d’innumerevoli generazioni passate, e profitta durante tutta la sua vita del concorso dei suoi contemporanei.
Egli sa che l’attività di ciascuno influisce, diretta o indirettamente, sulla vita di tutti, e riconosce perciò la grande legge di solidarietà, che domina nella società come nella natura. E siccome egli vuole la libertà di tutti. Bisogna che voglia che l’azione di questa necessaria solidarietà invece di essere imposta e subita, inconsciamente ed involontariamente, invece di essere lasciata al caso e di essere sfruttata a vantaggio di alcuni ed a danno di altri, diventi cosciente e volontaria e si esplichi quindi ad eguale benefizio di tutti.
O essere oppressi, o essere oppressori, o cooperare volontariamente al maggior bene di tutti. Non vi è altra alternativa possibile; e gli anarchici naturalmente sono, e non possono non essere, per la cooperazione libera e voluta.
È anarchico colui che la massima sua soddisfazione trova nel lottare per il bene di tutti, per la realizzazione di una società in cui egli possa trovarsi, fratello tra i fratelli. Chi invece può adattarsi, contento, a vivere tra schiavi e trarre profitto dal lavoro di schiavi, non è non può essere anarchico. 

giovedì 13 marzo 2014

LA PRIGIONE

Una prigione è una micro-società all’interno della società. Più che come edificio, una prigione funziona come una città. L’elemento più piccolo di questa città è la cella, il più grande la stessa prigione. Se si guarda all’elemento più piccolo, o a un braccio, inteso come un raggruppamento variabile di celle, la prigione è un edificio, se si guarda all’insieme di una struttura carceraria, capace di ospitare dalle 300 alle 3000 persone, l’edificio ha la scala di una città. 
Il carcere è però anche un luogo della città, una vera macchina per soffrire dove una fetta sempre più consistente di persone è costretta a vivere.
La prigione preserva il sistema. 
Ogni società, ogni edificio necessita di sue leggi e regole. Dove ci sono le leggi, ci saranno infrazioni. Dove ci sono regole, ci saranno eccezioni. Senza queste eccezioni una società non cambierebbe mai. Infrangere la legge e negare le regole sono condizioni necessarie per la sua evoluzione.
D’altra parte, la società protegge se stessa e la continuità della sua esistenza tentando di escludere le eccezioni alle regole del sistema che giudica negative. Più un sistema è conservatore, più velocemente un’eccezione è giudicata come negativa, poiché ogni eccezione determinerà un cambiamento. L’esclusione più rigorosa è la pena di morte, quella meno rigorosa è l’esilio temporaneo. In mezzo l’orrore quotidiano delle galere.
La prigione è soprattutto l’espressione di valori incerti e mutevoli.
Fare una prigione esprime soltanto un valore assoluto, una verità indiscutibile che è in contraddizione con il carattere opinabile del crimine e della sua punizione. D’altro canto esprimere soltanto il lato discutibile è in contraddizione con la necessità di chiarezza. Non soltanto una necessità per chi sta fuori, ma anche per i prigionieri, perché soprattutto per loro, il dentro è dentro, il fuori, fuori.
La prigione è uno strumento usato, più che per confinare un pericolo sociale reale, per ricattare, spaventare e intimidire le voci di dissenso al sistema dominante, o risolvere le croniche e cicliche disfunzioni di mercato come le migrazioni di disperati. 
In quanto espressione di queste poco nobili esigenze di sistema, non se ne può che auspicare l’abolizione.       

DONNA di Joumana Haddad

Nessuno può immaginare
Quel che dico quando me ne sto in silenzio
Chi vedo quando chiudo gli occhi
Come vengo sospinta quando vengo sospinta
Cosa cerco quando lascio libere le mie mani.
Nessuno, nessuno sa
Quando ho fame quando parto
Quando cammino e quando mi perdo,
nessuno sa che per me andare è ritornare,
e ritornare è indietreggiare
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera
e quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
Ed io glielo lascio credere
E creo.
Hanno costruito per me una gabbia
affinché la mia libertà fosse una loro concessione
E ringraziassi e obbedissi
Ma io sono libera prima e dopo di loro, con e senza di loro
Sono libera nella vittoria e nella sconfitta
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
Tuttavia la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
E al mio desiderio non impartiscono ordini.
Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
Ed io glielo lascio credere
E creo.

Una filosofia del rispetto per la natura


Una filosofia del rispetto per la natura può nascere solo sulle ceneri dell’idea dell’incontrollato e selvaggio dominio sulla natura e sulle ceneri di una cieca e utopistica sottomissione dell’uomo alla natura. La prima rischia di cancellare la natura (e con essa, ovviamente, anche l’uomo). La seconda è fondata su un rifiuto della presenza dell’uomo, su una sorta di senso di colpa per questa presenza e rischia di renderci impotenti. Entrambe queste filosofie tendono a distruggere, di là da tutte le loro buone intenzioni, la nostra possibilità di abitare la Terra. L’ideologia dell’incontrollato dominio può trasformare l’uomo in un sovrano, assiso su un mucchio di macerie in attesa di una tragica soluzione finale. La seconda può togliere all’uomo ciò che lo fa umano: la sua “emersione” dal mondo animale attraverso la costruzione di arnesi, del linguaggio, di complicate forme artificiali di vita associata. Questa nuova filosofia deve compiere due rinunce. Deve far sì che l’uomo riesca ad abbandonare, insieme e contemporaneamente, il sadismo dello sfruttatore e il masochismo de rinunciatario. Non si tratta di una facile impresa. Tali rinunce non implicano solo la revisione o l’abbandono di antiche e radicate ideologie e tradizioni di pensiero; esse comportano gravi disagi, suscitano resistenze notevoli, inducono alla messa in opera di potenti meccanismi di difesa. In primo luogo sadismo e masochismo costituiscono un intreccio non facilmente districabile. In secondo luogo, perché le due posizioni del dominio e della sottomissione rinviano continuamente e alternativamente l’una all’altra, sono l’una come lo specchio dell’altra e danno luogo a una sorta di moto pendolare delle idee. In terzo luogo, perché è facile che nella contrapposizione violenta fra le posizioni tradizionali trovino ascolto più le reciproche accuse di malafede che le analisi corrette. In quarto luogo, infine, perché questo tipo di contrapposizioni spinge molti a saltare, con poche e confuse idee, sul carro del vincitore del momento.
Non credo sia il caso di farsi illusioni. Credo che una larga parte della nozione comune o corrente di natura sia ancora oggi, come era alle origini, il risultato di proiezioni antropomorfe, sia intessuta di miti, sia legata a istinti e impulsi non razionali. La natura continuerà di volta in volta ad apparirci come una benefica forza creatrice, come un’invenzione continua di forme e, insieme, come una forza capace di produrre il male, priva di pietà, capace di suscitare i demoni della distruzione. E’molto probabile che nessuna filosofia possa sradicare dalla nostra mente quella antica e profonda ambivalenza che trovò espressione altissima nel grande poema di Lucrezio, che inizia non per caso con un inno a Venere genitrice e termina con un orrido quadro di desolazione e di morte.

giovedì 6 marzo 2014

La tecnologia non è neutrale

Almeno fra le persone coscienti e critiche sarebbe fondamentale smitizzare i luoghi comuni legati all'idea che la tecnologia ci giova, ci aiuta e sia indispensabile, quasi, facesse ormai parte della nostra struttura biologica e psicologica.
Accettare lo sviluppo della tecnologia nella nostra vita quotidiana diventa però una feroce rimozione autolesionista  verso nuove e sofisticate forme di schiavitù e di dipendenza totale. E' la contraddizione tra i nostri reali bisogni, autodeterminati e responsabili, spogliati da ogni reale autonomia di individuo e collettività a favore di un inarrestabile degrado ambientale e del rafforzamento dei soliti poteri economici.
Se ogni lotta non saprà liberarci dal quotidiano anche tecnico e tecnologico che ci sommerge sarà comunque una lotta inutile e persa in partenza. Le grandi aspirazioni che desideriamo tutto sommato sono la garanzia di sopravvivenza per tutti gli esseri del pianeta, abitando una vita degna di questo nome. La tecnologia non è neutrale. E' l'intima espressione dello stato, del potere, dello sfruttamento, del padrone, del modo di produzione industriale. Al pari del loro progresso e del loro sviluppo è solo un loro prodotto. La tecnologia non è al servizio dell'uomo e del mondo, bensì al contrario, di chi nel "progresso" e nello "sviluppo " ci guadagna.
 E' logico che l'accettazione della tecnologia da parte dei giovani e giovanissimi sia assoluta. Sono le prime generazioni cresciute ed educate dal consumo, dal condizionamento e dal plagio mediatico e globale.

THE LAST MOVIE di Dennis Hopper

The Last Movie racconta di uno stuntman, Kansas, (Hopper), impegnato sul set di un film western che si sta girando in un villaggio del Perù. Il suo lavoro è di curare le acrobazie a cavallo agli ordini del carismatico regista, interpretato da un vero regista Samuel Fuller, amico personale di Hopper. In un incidente muore uno dei cascatori. Kansas entra in crisi, decide che è arrivato il momento di fermarsi, lascia il set e si ritira in una casa del villaggio insieme alla prostituta Maria (Stella Garcia). Gli abitanti del villaggio che hanno assistito alle riprese del film e alcuni hanno partecipato come comparse, si sono costruiti delle finte cineprese con pezzi di legno e microfoni di bambù. Come in  un rituale sacro e selvaggio, come in una di quelle funeree processioni della Settimana santa, rimettono in scena il film. Solo che stavolta la violenza è reale, le vittime della finzione diventano cadaveri che lasciano scie di sangue. I campesinos di Chinchero non sanno distinguere tra il reale e la sua rappresentazione, si uccidono perché così hanno visto fare sul set del western. Il prete del villaggio (Tomas Milian), chiede a Kansas di aiutarlo a fermare la strage. Ma la violenza non si attenua. Il prete, in una spirale di fanatismo, individua nel cinema portato dagli yankee il responsabile dell’inquinamento morale della sua gente, e nello stuntman Kansas il rappresentante di quel male che viene da lontano. Incita gli abitanti di Chinchero ad assediare la casa in cui si è rifugiato lo stuntman e a catturarlo. Quello che succederà lo vediamo nella scena iniziale del film, con Kansas crocifisso, vittima sacrificale di quella rappresentazione collettiva.
The Last Movie è film dalla narrazione non lineare, caotica, destrutturata, decostruita. Hopper confonde, mescola, sovrappone. Il film  è un continuo depistaggio dello spettatore. Piani spazio-temporali che si incrociano. Titoli in sovrimpressione. Visioni che non si distinguono dalla realtà. Opera provocatoria, costruita secondo continui sbalzi temporali e digressioni allucinogene che spiazzano e confondono lo spettatore. Un film visionario, quasi sperimentale, inclassificabile, indigeribile, crudo e lisergico, tentacolare e caleidoscopico, un intenso viaggio di perdizione, elogio della rottura, forse un western, forse un documento antropologico, forse un trip lisergico e mescalinico. Inquietante, perché mette in scena la morte nelle cupe processioni del villaggio andino in cui era ambientato e la stessa violenza mortifera del cinema. Un film psichedelico, attori improvvisati che recitano parti improbabili in uno scenario quanto mai blasfemo, primitivo in cui l'occultismo di riti pagani si contrappone ad un antropocentrismo missionario in evidente stato di decomposizione morale.
The Last Movie una scopata incestuosa di immagini e, capolavoro nel capolavoro, prodotta con capitali hollywoodiani (da quelle parti ben si pensava di sfruttare il successo di Easy Rider) ed invece Hopper ne fa una feroce requisitoria contro il mondo di Hollywood e sulla corruzione e il vizio che ne sono parte integrante, una sorta di allegoria circa l'America e il modo in cui essa si autodistrugge; il capitalismo e la violenza e il colonialismo hollywoodiano.
L'attore Henry Jaglom scrive nel suo diario che sul set non ci sono servizi igienici, l'acqua non è potabile, è marrone... e non c'è sapone; c'è molta gente che sta male, vomito, urina, tutto in una poltiglia di terra; da tutte le parti, epidemie, niente detersivi, atmosfera irrespirabile, quattro ore di macchina pericolose e faticose, su strade dissestate e strettissime, ogni giorno per trovare uno straccio di ricovero... 

La psicogeografia come esplorazione dello spazio sociale

La psicogeografia è un’esplorazione dello spazio sociale e dei suoi modi d’uso. Essa è guidata dallo studio che l’intelligenza sensibile fa degli effetti precisi dell’ambiente geografico – naturale o complessivamente reificato dal dominio della merce come è oggi il caso – sul comportamento affettivo degli individui e conseguentemente sul loro comportamento sociale; essa riguarda, di fatto, l’insieme dei fenomeni che influenzano i sentimenti e favorisce la critica degli effetti perversi che il produttivismo riversa sulla comunità umana.
Questo compito esplorativo riguarda la pratica e si assolve piuttosto passeggiando nella vita, lasciandosi andare alla deriva nella geografia sociale del vissuto ben più che leggendo e commentando libri ponderosi di presunte verità calate dal cielo dell’ideologia.
La caratteristica più radicale della psicogeografia è comunque, la sua evidente incompatibilità con ogni ideologia politica o religiosa così come con qualunque propaganda pubblicitaria di cui essa è il nemico naturale. Il suo savoir-faire può aiutarci a cogliere ogni senso anticipato di un’artificialità del vivente operata dalla scienza della manipolazione pubblicitaria indaffarata a bloccare sul nascere la minima resistenza all’addomesticamento.
La psicogeografia ci insegna a rinnovare il legame spontaneo tra l’umano e la natura che la civiltà del lavoro ha ridotto male e a questo scopo non può che esortare al superamento di ogni conflittualità di classe o di genere, fino a rendere risibile e insopportabile il vecchio fantasma patriarcale di un dominio crescente dell’uomo sull’uomo, sulla donna e sulla natura.
Mentre dei grattacieli crollano e la penuria s’insinua nell’abbondanza di miserie, l’umanità dell’uomo si riavvicina alla terra come a un ultimo territorio sconosciuto da riscoprire.
Gli antichi esploratori avevano conosciuto un tasso elevato di perdite al prezzo delle quali si è arrivati alla conoscenza di una geografia obiettiva. Si tratta, ora, tramite la psicogeografia, di riscoprire la realtà dei nostri desideri manipolati e pervertiti, in modo da reinventare l’universo interiore ed esteriore di una felicità obiettivamente possibile. Tra i compiti che la psicogeografia si dà per soddisfare la volontà di cambiare, c’è quello di cartografare le terrae incognitae emergenti, abbozzando soprattutto i contorni effimeri dei territori immaginari ancora nascosti nell’intimità rimossa degli individui e dei gruppi.