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giovedì 27 febbraio 2014

PERCHÈ LUDDISTI

I luddisti combatterono un tipo di macchine che contenevano un modo di produzione ingiusto non solo verso di loro, ma verso tutti gli altri popoli e la natura. In questo senso furono l’unico movimento popolare che avesse colto il problema morale del processo industriale ai suoi albori. Invece, l’intera sinistra politica, abbracciando di fatto la fede nella neutralità della tecnologia industriale, contribuì a radicare nella mentalità moderna l’illusione che l’unica soluzione alle ingiustizie della nuova economia era la ridistribuzione del plusvalore prodotto dalle macchine con l’aumento dei salari e la sicurezza sociale. Ciò favorì ancor più lo sviluppo della logica industriale provocando l’automazione e il trasferimento dello sfruttamento degli operai nei paesi più ricchi alla natura e ai paesi più poveri che possiedono le materie prime e la manodopera disposta a lavorare per salari dieci volte più bassi (non solo per la minore sindacalizzazione, ma anche per il cambio favorevole e per la presenza di un vasto mondo rurale su cui scaricare i costi, che nei Paesi industriali sono a carico dei singoli e dello Stato).
I luddisti si opposero a un tipo di disoccupazione nuovo a livello di massa, per i non schiavi: la possibile mancanza di lavoro salariato senza più accesso alle fonti essenziali della sopravvivenza. La civiltà europea, rappresentata dai villaggi di tessitori del Lancashire, coincideva con una società capace di resistere alle crisi dell’arte della lana e del cotone: le comunità contenevano molti mestieri e le loro strutture territoriali, come le antiche città murate, potevano dar da vivere ai suoi abitanti per lunghi periodi di difficoltà economiche. All’operaio della fabbrica fu da allora sottratto ogni elemento dell’ambiente domestico; sua moglie, costretta al lavoro salariato, non fu più in grado di adempiere nemmeno ad una elementare funzione dell’autonomia di sussistenza: l’allattamento.
Le politiche economiche che, hanno creduto nella possibilità di una giustizia sociale tramite la distribuzione della ricchezza prodotta dalle tecnologie industriali, sono inciampate nella loro incapacità ad esprimere un progresso in cui il lavoro riprendesse il sopravvento sul capitale e ritrovasse quella libertà e dignità autonoma, che le economie artigiane e contadine di sussistenza gli avevano impresso prima della devastazione sociale introdotta dall’industria.

TROPPO LONTANO - Kina

Le verità sono sempre le cose più difficili da vedere
i veli tra noi e la realtà son sempre troppi
l’alcool che hai dentro sa confondere bene le idee degli altri
l’odio che hai dentro ti fa vedere una falsa realtà

ci deve essere qualcuno lì fuori
non è possibile tutto questo silenzio
per strada un sacco di visi
sui giornali un mare di parole
ma non vedo nessun uomo laggiù
non c’è più nessuno che scriva o che dica qualcosa
ma qualcuno deve essere rimasto vivo

è la follia della realtà che ci fa sbagliare
mentre scendiamo le scale che portano alla distruzione
sono sempre troppe le menzogne che fanno carriera
i troni sono stati creati per innalzare gli idioti: uomini idee

è nel silenzio di queste città che sta cambiando la vita
dentro ai grattacieli le decisioni sono già state prese
non credere di capirmi dalla scorza che vedi
il mio vero io è troppo lontano,
nella profondità dell’assurdo.



E' come se votassero delle scimmie...

I sistemi democratici avanzati si stabilizzano sulla formula dell'alternanza bipartitica. Il monopolio di fatto rimane quello di una classe politica omogenea, dalla sinistra alla destra, ma non deve esercitarsi come tale: il regime del partito unico, del totalitariato, è una forma instabile, essa smorza la scena politica, non assicura più il feedback dell'opinione pubblica, il flusso minimale nel circuito integrato che costituisce la macchina transistorizzata del politico. L'alteranza è invece il non plus ultra dell'equazione concorrenziale perfetta fra i due partiti. Questo è logico: la democrazia realizza nell'ordine politico la legge dell'equivalenza, e questa legge si realizza nel gioco d'altalena dei due termini, che riattiva la loro equivalenza ma permette, mediante questo minimo scarto, di captare il consenso pubblico e di richiudere il ciclo della rappresentazione. Teatro operativo dove non recita più che il riflesso fuligginoso della Ragione politica. La libera scelta degli individui, che è il credo della democrazia, sbocca in realtà esattamente nell'opposto: il voto è diventato sostanzialmente obbligatorio: se non lo è di diritto, lo è per la costrizione statistica, strutturale dell'alternanza, rafforzata dai sondaggi. Il voto è diventato sostanzialmente aleatorio: quando la democrazia raggiunge uno stadio formale avanzato, essa si distribuisde intorno a delle percentuali uguali (50/50). Il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo dele probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie.
A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia, bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statica e tanto maggiore.

giovedì 20 febbraio 2014

Lottiamo per la liberazione animale


Il primo stadio è quello di 50.000 anni fa quando con l’arco l’uomo cacciava i grandi mammiferi. Il secondo risale a 10.000 anni fa quando la società umana è diventata agricola e ha costretto gli animali a trasformarsi da selvatici a domestici, usandoli per vari scopi per i propri bisogni, cominciando anche a creare svaghi attorno agli animali come ancora ne sono tracce tante sanguinarie tradizioni come quelle in Spagna.
Terzo stadio: nel 17° secolo poi sono iniziati gli esperimenti scientifici sugli animali.
Quarto stadio: nel 19° secolo abbiamo inventato i macelli-industriali.
Quinto Stadio: nella metà del 20° secolo abbiamo inventato gli allevamenti intensivi.
Sesto stadio: adesso la guerra si è intensificata e include clonazione, trapianti di organi animali, ingegneria di vario genere applicata agli animali e a spese degli animali.
L’impero umano si è dunque formato a spese loro e il mondo è pieno di allevamenti, macelli, laboratori di vivisezione, allevamenti e fabbriche di pellicce.
60 miliardi di animali di terra sono uccisi ogni anno per il cibo. Almeno 10 volte tanti sono i pesci sacrificati sempre per il cibo. 100 milioni di animali vengono uccisi nei laboratori di vivisezione. Decine di milioni per le pellicce. Con numeri del genere come possiamo usare un termine diverso da guerra?
La guerra può essere aperta o nascosta. Quella contro i lupi è un esempio di guerra aperta.
La guerra non dichiarata è quella silenziosa dei laboratori dove viene fatta la sperimentazione, è la ricerca umanitaria, o anche la carne biologica, entrambe queste situazioni rendono più accettabile la morte di decine di milioni di animali.
La nostra guerra è difensiva, non offensiva. Non abbiamo iniziato noi la guerra, l’hanno loro la responsabilità, la loro guerra non ha alcuna giustificazione etica, mentre noi lottiamo per la liberazione animale, è un’auto-difesa, e abbiamo bisogno di mettere sul tavolo più tattiche possibili, ogni possibile tattica purchè sia intelligente e che funzioni. Non istighiamo alla violenza ma proponiamo una totale disobbedienza civile.

I nostri veri nemici al momento sono le multinazionali dell’agro-business. Noi dobbiamo coalizzarci contro l’agro business multinazionale e per farlo dobbiamo stringere patti, gettare ponti, non dividerci tra vegani e non vegani, questa è una cosa sciocca che non ci porterà lontano, noi possiamo trattare con i consumatori, con i piccoli produttori, anche con i piccoli allevatori, con le istituzioni che cercano di difenderli, e dobbiamo individuare il nostro nemico comune. Finché non faremo questo non otterremo risultati.
Noi vogliamo una società inclusiva, che apra i suoi diritti anche per gli altri animali, Non c’è spazio per il razzismo, per il sessismo, per il patriarcato, per la gerarchia, per l’elitismo, per il militarismo, per il nazionalismo animale perché il mondo che vogliamo è un mondo di pace e libertà dove tutti abbiano accesso ai diritti.


Immaginatevi di notte, state camminando in una strada buia, siete soli, avete paura, se urlaste nessuno vi sentirebbe, affrettate il passo. In fondo alla strada vedete un’ombra che vi viene incontro, un uomo che si fa sempre più vicino, sempre più minacciosamente vicino e la vostra angoscia sta salendo. Chi vorreste che fosse quest’uomo? Un nazista, uno del Ku Klux Klan o un animalista che libera gli animali?

IL POTERE OPERAIO

A che cosa serve questo giornale? Possiamo rispondere, per ora, solo in parte. Sarà il giornale stesso, e il lavoro politico dal quale nasce, a riproporre più concretamente la domanda, e a permettere una più concreta e ricca risposta. 
Noi vogliamo contribuire a formare e rafforzare negli operai la coscienza dello sfruttamento capitalistico, attraverso la discussione e lo studio, attraverso lo stimolo e l’intervento attivo nelle lotte in fabbrica, attraverso l’organizzazione degli operai contro il potere capitalistico, in fabbrica e fuori dalla fabbrica.
La nostra iniziativa nasce con precisi limiti locali. Essa si collega all’intervento politico svolto da qualche tempo nelle fabbriche di Massa, e che ora si svolge a Pisa, a Piombino, a Livorno, e potrà forse più in la estendersi ad altre città. Essa ha in oltre un importante riferimento in altre iniziative analoghe, anche se ancora slegate, che vengono portate avanti in altre situazioni, e di cui il giornale darà notizia e discuterà volta per volta.
Alcuni compagni che partecipano al nostro lavoro sono iscritti: al PCI o al PSIUP, altri lo sono stati e non lo sono più, altri ancora non lo sono mai stati. Tutti sono convinti che il movimento operaio ufficiale nel suo complesso segua una linea teorica e pratica che lo rende sempre più estraneo alla lotta per una società libera dal potere dello sfruttamento. La mancanza di un pensiero e di una attività rivoluzionaria è tanto più duramente grave in fabbrica.
Il giornale esce in una situazione generale pesante, e che si è aggravata ulteriormente in modo sensibile per la negativa conclusione delle pur così forti lotte contrattuali che hanno animato il periodo appena trascorso. Questa situazione rischia di interrompere, almeno per il periodo della durata dei contratti, la lotta operaia.
Tanto più necessario è, in questa situazione, assicurare una presenza apolitica in fabbrica, nella discussione come nella lotta, impegnando direttamente tutti gli operai.
In questa azione noi partiamo dalla condizione operaia attuale, e dai punti decisivi immediatamente, dal problema del taglio dei tempi e della lotta al cottimo, al rifiuto della collaborazione in fabbrica, alla eguaglianza salariale, al rifiuto delle divisioni categoriali, al problema della organizzazione diretta degli operai in ogni fabbrica.
Su questo terreno bisogna giungere ad affrontare tutti i problemi che oggi si pongono ad una rigorosa lotta di classe anticapitalistica.

(Il potere operaio N.1 - 20 febbraio 1966 rivista politica del gruppo Il potere operaio pisano, nato nell'ambiente universitario pisano in particolare nella Normale) 

Contro il castigo

Il castigo non dissuade dal crimine, lo stimola. Dà inizio a un’asta competitiva in cui il colpevole esercita sugli altri una giustizia che gli altri eserciteranno su di lui. Il criminale non agisce forse come un giudice implacabile? Condanna, punisce, grazia o elimina la sua vittima senza derogare alla legge di una giustizia universale. Il suo delitto lo impiega e sa che ne pagherà la tassa se viene arrestato.
Tale è la logica inevitabile degli scambi, essa si riproduce senza fine. Cionondimeno non è una legge umana, è soltanto la legge di un’economia in cui tutto si paga.
Condannare la violenza, lo stupro, l’attentato e fare appello ad una legalità che uccide, imprigiona, stupra e tormenta, vuol dire che entrare nella disumanità di un mercato chiamato giustizia, vuol dire rassegnarsi, con un segreto sentimento di vendetta, a comportarsi come un giudice ed un criminale.
Per quanto possiamo trovarci costretti a lavorare per sopravvivere e, nella stessa occorrenza, a reagire violentemente per difendersi – perché non è questione di tollerare alcuna minaccia -, non ci farà assentire né alla virtù del lavoro né alla fondatezza del taglione. Una civiltà che ha la pretesa di creare la sua umanità si rinnega se non si adopera con ogni mezzo per spezzare il ciclo del crimine e del castigo, per farla finita con la giustizia.
Seppure possiamo essere trascinati, a certe ore del giorno e della notte, in un gioco le cui regole appartengono all’universalità mercantile, non abbiamo scelto di entrarvi, non ci preoccupiamo di vincere o perdere, non abbiamo altra convenienza che di uscirne. Colui che, raccogliendo secondo il caso i piaceri, evita i sentieri battuti dell’autopunizione e dei suoi esorcismi, se ne frega di giudicare e di essere giudicato.  

giovedì 13 febbraio 2014

La società anarchica

La visione della società anarchica che si può descrivere nelle sue molteplici determinazioni si fonda sulla centralità della libertà e dell’uguaglianza intese come dimensioni inscindibili. La libertà e l’uguaglianza sono concepite come leve reali della trasformazione sociale perché sono poste all’inizio di tale processo. Esse si costituiscono a qualsiasi livello storico dato, in quanto non sono viste come esiti derivati da uno sviluppo di altra natura. Come le forme le forme del potere esprimono il grado di una società gerarchica, così le forme della libertà e dell’eguaglianza esprimono il livello storico di una società liberatasi dal principio di gerarchia. Ponendo la libertà e l’uguaglianza come cause anziché come effetti, l’anarchia svolge interamente la sua dimensione utopica perché non tiene conto del condizionamento della storia verso la quale, anzi, si pone con un senso di rottura radicale e irreversibile. La libertà e l’uguaglianza, quali principi informatori causali, non sono il risultato di un determinato sviluppo socioeconomico, proprio perché esse non sono risolvibili una volte per tutte. Sono, invece, perenne svolgimento indeterminato dell’agire umano, spinta continua al cambiamento e all’esperimento.
La società anarchica intesa come un vero e proprio progetto pensato secondo schemi razionali, ossia come pura costruzione teorica sostanzialmente priva di referenti concreti attuali, e perciò avulsa dal reale processo storico in atto, delinea un assetto libertario ed egualitario nel quale sono aboliti ogni forma di Stato e di governo. In esso vige la libertà come principio generale di associazione, l’eguaglianza fra tutti i membri della società, la parità e la libertà sessuale, la pratica del mutuo appoggio e in genere del solidarismo, l’economia quasi sempre socializzata secondo moduli comunistici o socialistici, lo sfruttamento razionale delle risorse, la ripartizione egualitaria fra tutti gli individui dei lavori più gravosi, l’integrazione del lavoro manuale con il lavoro intellettuale, il superamento della divisione fra città e campagna.
Ciò che accomuna queste delineazioni è il tentativo di una descrizione in termini di reale funzionamento della società anarchica, nel senso che anticipano sul tempo una visualizzazione della sua esperibilità, secondo un voler essere rispetto all’effettiva datità presente.

STATE LI' E ASCOLTATE di Jim Morrison

State lì è ascoltate
li sentirete
minuscole forme proprio di là
della luna
Lucciole stellari, dardi fantastici,
fronde malinconiche
fauci di scimmia movimentate nello sforzo
da fare il grido della
posta mattutina
Grida gufo.

Rendi omaggio al rampicante.
Striscia il serpe lattante, e recalcitrante
rode

Ti conosco.
Sei quello che tralasciò di
avvertire. Ora spento
& accigliato. Trasferimento
Aggiornato.

Rubami una pesca
dall’albero di arance
giardiniere

Lei cadde.

Che ci fai
c/le mani sul suo
seno?

È caduta, signo’.

Dalla a me.

Si, signo’.
Va’ a dire al padrone
Che cosa hai fatto.

L’hanno ammazzato.

Più tardi.

Mentre saliva le scale
in manette
verso la sua cella.

Un colpo di pistola
Alle spalle.

Il crack delle borse e la fine del denaro


I media e le istanze ufficiali ci stanno preparando: molto presto si scatenerà una nuova crisi finanziaria mondiale e sarà peggiore che nel 2008. Si parla apertamente di catastrofi e disastri. Ma che cosa accadrà dopo? Come saranno le nostre vite dopo un crollo su vasta scala delle banche e delle finanze pubbliche? Attualmente tutte le finanze europee e nord-americane rischiano di sprofondare insieme senza alcun salvatore possibile.
In quale momento il crack delle borse non sarà più una notizia appresa dai media, ma un evento di cui ci si accorgerà uscendo per strada? Risposta: quando il denaro perderà la sua funzione abituale. Sia rarefacendosi (deflazione), sia circolando in quantità enormi ma svalutate (inflazione). In entrambi i casi, la circolazione delle merci e dei servizi rallenterà fino a potersi arrestare totalmente: i loro possessori non troveranno più chi potrà pagarli in denaro, in denaro valido che gli permetta, a sua volta, di acquistare altre merci e servizi. Essi terranno quindi per sé quei servizi e quelle merci. Ci saranno magazzini pieni, ma senza clienti; fabbriche in grado di funzionare perfettamente, ma senza nessuno che ci lavori; scuole in cui i professori non si presenteranno più, perchè privi di salario da mesi. Allora ci si renderà conto di una verità che era talmente evidente da non essere più vista: non esiste alcuna crisi nella stessa produzione. La produttività aumenta continuamente in tutti i settori.
 Quello che non funziona più è l'interfaccia che si pone fra gli uomini e ciò che producono: il denaro. Nella modernità, il denaro è diventato il mediatore universale. La crisi ci mette di fronte al paradosso fondativo della società capitalista: in questa ultima la produzione di beni e servizi non è un fine, ma soltanto un mezzo. Il solo fine è la moltiplicazione del denaro, è investire un euro per riscuoterne due. E quando questo meccanismo va in panne, è l'intera produzione reale che soffre e che può anche bloccarsi completamente.
Questa rinuncia forzata al denaro è sempre stata la sorte del povero. Ma ora, situazione inedita, questa sorte potrebbe toccare all'intera società, o quasi. L'ultima parola del mercato è allora di lasciarci morire di fame in mezzo ad alimenti stipati ovunque e che marciscono, ma che nessuno deve toccare.


giovedì 6 febbraio 2014

L’ANARCHIA

Anarchia significa assenza di autorità. Se s’intende per governo la forma più esplicita dell’autorità, ne consegue che l’anarchia è la negazione di questa idea, cioè di ogni dominio dell’uomo sull’uomo. Essa designa un regime sociale dove non esistono, in via di principio, forme coercitive a carattere istituzionale: la vita individuale e collettiva è concepita senza un potere costituito. Si intende ordine sociale e non politico perché una società concepita senza un potere non può esprimere alcun ordine politico: la società anarchica è una società non politica, naturalmente se per politica s’intende l’esplicazione dell’autorità. In altri termini, la società anarchica è una società etica per eccellenza. Essa sostituisce il complesso giuridico della costrizione potestativa, per cui il rapporto decisivo fra i membri di questa società non è fra legge e libertà, ma fra libertà e morale. Dunque l’anarchia è la negazione del governo perché è la negazione dell’autorità ed è la negazione dell’autorità perché è la negazione della politica.
Da questa definizione balza subito agli occhi un fatto irrisolvibile: in qualunque maniera si definisca l’anarchia, si dovrà sempre incominciare col definirla in modo negativo, poiché il principio su cui si fonda parte in tutti i casi da una negazione, precisamente dalla negazione del principio di autorità. Fondandosi per principio su una negazione, il concetto di anarchia non può mai uscire dall’indeterminato. Di conseguenza, è solo su questa negazione che la società anarchica riscuote un consenso unanime: chiunque si riconosce nell’anarchia si riconosce innanzitutto nella negazione del principio di autorità, si riconosce cioè nel rifiuto di questa premessa quale principio informatore della società umana.
Del resto non potrebbe essere altrimenti, qualora si consideri che l’anarchia è retta ontologicamente da una negazione. È sulla comune negazione della autorità e delle leggi, sull’assenza di questi presupposti coercitivi, che nasce il patto fra gli uomini della società libera. Essi si riconoscono universalmente nella negazione del principio di autorità, mai nella positività della libertà, essendo questa, proprio per definizione anarchica, infinita.
Si può dunque dire che l’anarchia si evidenzi concettualmente in una radicale coerenza. In quanto negazione indeterminata del principio di autorità, essa non può mai essere monopolio di nessuno. Non descrivendo concretamente un ordine sociale specifico, impedisce a chiunque di affermare ciò che questa anarchia deve essere, ciò che si deve intendere di questo ordine stesso. 

I GUERRIERI DELLA NOTTE di Walter Hill

“Guerrieri, giochiamo a fare la guerra?”
I Riffs, la gang più grande di New York, organizza un raduno con tutte le bande della città. Durante il raduno qualcuno, tra la folla, spara e uccide Cyrus, il capo dei Riffs. Subito dopo l’omicidio si sparge la voce che l’assassino è un componente della banda dei Guerrieri, una gang che si distingue per i corpetti in pelle senza maniche. Tutte le altre gang decidono di vendicare la morte di Cyrus ed iniziano ad inseguire i Guerrieri. Da quel momento il loro destino sarà segnato, non ci sarà più via di scampo per loro. Dopo una fuga che durerà tutta la notte, all’alba, lungo la spiaggia di Coney Island, verrà scoperta finalmente la verità sull’omicidio.
Film di culto dell’inizio degli anni ’80 e basato sulla novella The Warriors di Sol Yurick che è, a sua volta, la metafora dell’opera storiografica greca Anabasi di Senofonte (Cyrus, il nome del capo della gang dei Riffs, è ispirato proprio alla storia di Senofonte, anche se il termine greco “anàbasi” significa letteralmente “viaggio dalla costa verso l’entroterra”, mentre quello dei nostri è effettivamente dall’entroterra, il Bronx alla costa, la spiaggia di Coney Island). 
I Guerrieri di Walter Hill sono ragazzi adolescenti, senza alcun riferimento se non a loro stessi e soprattutto al senso di appartenenza ad un gruppo, la gang come famiglia.  
È estremamente radicata questa tendenza che non accettano minimamente di togliersi e consegnare i loro giubbotti in finta pelle quando passano nel territorio della banda da quattro soldi degli Orfani. Questo aspetto non viene mai messo in discussione. Sono ragazzi soli e sbandati che hanno trovato nella loro unità interna un forte simbolo di protezione, di difesa e anche di attacco verso il mondo adulto che nel film di Hill è personificato nella repressione della polizia.
Il mondo adulto è il principale nemico, sia la polizia o la criminalità organizzata che Cyrus vorrebbe abbattere e che probabilmente, anche se Hill non lo esplicita mai, né rilascia indizi in tale senso, è il vero mandante della sua morte. Le figure genitoriali sono praticamente assenti per tutto il film.
La gente comune semplicemente non esiste, come in una sorta di autoesclusione che rende la vita notturna di questi luoghi a dei campi di battaglia dove la legge dell'uomo non arriva, ma funziona la legge non scritta della Strada che nelle grandi metropoli funge in egual misura come alle leggi della Natura nella giungla.
Sin da subito il regista ci vuole far capire in che stato e in quale degrado vivevano i giovani americani negli anni ’70. Ragazzi di estrazione popolare, abbandonati a sé stessi e senza un obiettivo preciso nella vita, che trovavano il modo per sconfiggere la noia e l'emarginazione facendo atti di delinquenza e nel cercare di prevalere verso le altre bande con la violenza. 
Cultura del sotterraneo, questo straordinario film ti fa immergere dentro la subcultura della vita notturna nelle metropoli, dove i diseredati, i delinquenti, i senza futuro, riescono ad organizzarsi secondo una struttura gerarchica ben definita, disciplinando i propri comportamenti e trasferendo le forme di rivalità, onnipresenti tra gli esseri umani, verso i poteri più forti. 
Le varie tappe del tormentato ritorno dei Warriors sono scandite dalla D.J. di una radio cittadina. Fornisce aggiornamenti ed indicazioni in codice a tutte le bande della città perennemente sintonizzate sulle sue onde. Le canzoni sono anche e soprattutto dei messaggi in codice per poter localizzare i Warriors, oltre a determinare ritmi e pause.





Disistituzionalizzare la scuola

Abbiamo cercato per generazioni di migliorare il mondo fornendo una quantità sempre maggiore di scolarizzazione, ma sinora lo sforzo non è andato a buon fine. Abbiamo invece scoperto che obbligare tutti i bambini ad arrampicarsi per una scala scolastica senza fine non serve a promuovere l’uguaglianza ma favorisce fatalmente colui che parte per primo, in migliori condizioni di salute o più preparato; che l’istruzione forzosa spegne nella maggioranza delle persone la voglia di imparare per proprio conto; e che il sapere trattato come merce, elargito in confezioni e considerato come proprietà privata, una volta acquisito, non può che essere sempre scarso.
Ci si è improvvisamente resi conto che l’istruzione pubblica attuata mediante la scolarizzazione obbligatoria ha perso ogni legittimità sociale, pedagogica ed economica. Pertanto, i critici del sistema scolastico propongono ora rimedi energici ed eterodossi che vanno dal progetto dei “buoni-studio”, che permetterebbe a ognuno di procurarsi l’istruzione che preferisce sul mercato libero, al passaggio della responsabilità dell’istruzione dalla scuola ai media e all’addestramento sul lavoro. Alcuni sostengono che la scuola dovrà perdere il suo carattere di istituzione ufficiale dello Stato come l’ha perso la Chiesa nel corso degli ultimi due secoli. Altri riformatori propongono di sostituire la scuola universale con vari altri sistemi che, a loro parere, assicurerebbero a tutti una migliore preparazione alla vita propria di una società moderna. Queste proposte di nuove istituzioni educative si possono grosso modo raggruppare in tre categorie: la riforma dell’aula scolastica all’interno del sistema scolastico; la disseminazione di libere aule scolastiche in tutta la società; la trasformazione di tutta la società in un’unica immensa aula scolastica. Ma queste tre prospettive – l’aula riformata, l’aula libera e l’aula universale - rappresentano in realtà tre momenti di un progetto di escalation educativa nel quale ogni fase minaccia un controllo sociale più sottile e più penetrante della precedente.
Io credo che l’abolizione dell’istituzione scolastica sia divenuta inevitabile e che tale fine di un’illusione dovrebbe colmarci di speranza. Ma credo anche che alla fine dell’“era della scolarizzazione” potrebbe seguire l’era di una scuola globale che solo per il nome si differenzierebbe da un manicomio globale o da un carcere globale, e dove istruzione, correzione e adattamento diverrebbero sinonimi. Credo quindi che lo sfacelo della scuola ci debba far guardare al di là della sua fine imminente per valutare quelle che sono le alternative fondamentali in questo campo. Esistono due possibilità: si possono realizzare nuovi tremendi congegni educativi volti a inculcare l’accettazione di un mondo che si viene facendo sempre più opaco e proibitivo per l’uomo, oppure si possono porre le condizioni per un’era nella quale la tecnologia venga usata per rendere la società più semplice e trasparente, si che tutti gli uomini possano tornare a conoscere i fatti e ad adoperare gli strumenti che plasmano la loro vita. Possiamo, in altri termini, disistituzionalizzare la scuola oppure descolarizzare la cultura.