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venerdì 27 dicembre 2013

Dell’amore affinato come creazione di un mondo nuovo

C’è nell’amore della vita la totalità dell’amore. La corruzione dell’uno comporta quella dell’altro. Siccome non c’è nulla che sia così incompatibile con l’economia come l’amore e la vita, una sorte comune ti condanna all’incompiutezza, un’opinione millenaria li classifica nel novero delle chimere. Nell’ordine delle cose che è la fatalità disumana di un’umanità di produttori, la vita e l’amore non esistono, né possono esistere.
Tuttavia il mondo cambia di base, non nelle trepidazioni, così disperatamente sperate, della Grande Sera. Non mediante quelle rivoluzioni che non furono fin nella risolutezza stessa di quelli che si illudevano di guidarle se non le contorsioni della merce in via di mutazione. Il crollo della nostra civiltà e lo snaturamento della terra sono improvvisamente altrove nello spazio e nel tempo per chi rifiuta di marcire nella decrepitezza della redditività e del potere concorrenziale. Se la vita sgorga e porta le sue devastazioni nei circuiti di mille morti quotidiane, laboriosamente programmate, vuol dire che la sopravvivenza non riesce più ad ostruirla con il peso della sua impostura.
Come insegnano ormai i bambini, il piacere di vivere non deve più affermarsi pagando un tributo alla retorica della sua sconfitta. A dispetto delle antiche oppressioni, l’amore di sé, quale lo scoprono l’infanzia e la nuova coscienza degli amanti irradia da una potenza di cui la potenza industriale, perfettamente concentrata nell’irradiazione nucleare, sarà stata il mortale surrogato. È il motivo per cui noi consideriamo l’esigenza amorosa di essere tutto, in ogni tempo e ovunque, come l’unica alternativa alla società mercantile.
O l’economia porterà a compimento la perdizione del vivente, o la società si fonderà sulla predominanza dei desideri affrancati dall’universo mercantile. O noi periremo nella stupidità crescente del profitto e del prestigio promozionale, o il primato del godimento porterà alla rovina il lavoro attraverso la creatività, lo scambio mediante il dono, il senso di colpa tramite l’innocenza, la volontà di potenza grazie alla volontà di vivere, gli appagamenti angosciati per mezzo del ritmo naturale del piacere e del dispiacere.
Una scommessa è aperta. Tra la tendenza ad abbandonare il meglio per il peggio, e la trasmutazione dell’Es individuale. Tra il disprezzo di sé, questa virtù, di cui si onora lo schiavo, di rimettersi ad una guida uomo politico, prete, medico, psicanalista, pensatore, istituzione, governo, e un arte di godere, pazientemente decantata dalle impregnazioni della morte. 

BANDITO SENZA TEMPO The Gang

Un tempo fu un bandito 
bandito senza tempo 
uccise un presidente 
ne ferì altri cento 
Forse fu a vent'anni 
o forse due di meno 
era con Gaetano Bresci 
sopra una nave lungo il Tirreno. 
Giocarono a tresette 
tresette con il morto 
il terzo era un gendarme 
il quarto un re dal fiato corto 
un tempo fu a Milano 
dove si va a lavorare 
c'erano tante bande 
quante banche da rapinare. 
Forse fu per caso 
che con Pietro Cavallero 
fece la comparsa 
in un film in bianco e nero. 
Gli diedero fucili 
e pistole di terza mano 
un passaporto falso 
per fuggire via lontano. 
Un tempo per paura 
forse per coraggio 
si fece catturare 
alla catena di montaggio 
Quel tempo chi lo ricorda 
lo Stato aveva mal di cuore 
così a Renato Curcio 
chiese in prestito nuove parole. 
Con quelle partì all'assalto 
di nuovi mulini a vento 
incontrò anche un sorriso 
lungo la strada che porta a Trento. 
Un tempo questo tempo 
con un'arma un po' speciale 
una Magnum Les Paul 
spara canzoni che fanno male. 
Ora ha una nuova banda 
e un fazzoletto rosso e nero 
quando attacca "I fought the law" 
fa saltare il mondo intero. 
ma un tempo fu un bandito 
bandito senza tempo 
veniva con la pioggia 
e se ne andava via col vento....

La distruzione della civilizzazione di WOLFI LANDSTREICHER

La distruzione della civilizzazione - quella rete di istituzioni, sistemi e strutture comprendente lo Stato, l'economia, la tecnologia, la religione, la famiglia e ogni forma di dominio e di controllo - e il rovesciamento dell'addomesticamento sono obiettivi rivoluzionari, linee guida verso un modo di vivere insurrezionale contro il presente. Non si tratta solo di negare l'esistente, c'è una visione positiva dietro tali negazioni. Si può esprimere il concetto con i  termini di  "wildness" (stato selvaggio). Ma lo stato selvaggio - specialmente come meta da raggiungere da parte degli individui in rivolta contro addomesticamento e civilizzazione - è una qualità incognita. Come anarchici riteniamo che non ci possano essere degli esperti in selvatichezza umana, nessun leader che ci possa condurre in quei luoghi. Lo stato selvaggio per molti di noi è un concetto, un'idea, che può certamente ispirare la rivolta; ma non ci sono indicazioni, linee da seguire, unicamente delle domande degli interrogativi, che questa idea solleva. La nostra analisi su tale questione dello stato selvaggio può, naturalmente, includere l'esame di ciò che sappiamo delle popolazioni non civilizzate e di come vivevano, ma questo è utile solo se abbiamo l'onestà, l'integrità di riconoscere che tutta questa conoscenza è comunque stata filtrata dalle lenti civilizzate di scienze come l'antropologia, l'archeologia, la paleontologia. Dobbiamo evitare l'illusione di poter imitare o "ritornare" ai modi di vita di quegli individui, sarebbe l'imitazione di un'immagine statica così come viene presentata dal nostro punto di vista civilizzato, piuttosto che il rivivere la dinamica dei rapporti reali tra la natura e la loro società. La cosa più importante da apprendere dall'esame degli studi antropologici dei popoli non-civilizzati è che costoro in ogni caso sono stati capaci di vivere, e vivere bene, in una varietà di modi diversi senza tutti i presunti vantaggi forniti dall'insieme dei sistemi sociali e tecnologici compresi in ciò che noi chiamiamo civilizzazione. Troppo spesso la retorica degli anarchici anticivilizzazione è farcita di ascetismo e di una morale del sacrificio, la rivolta contro la civilizzazione deve essere precisamente una rivolta contro l'ascetismo imposto dalle istituzioni della civilizzazione, una rivolta contro l'incanalamento del desiderio nella produzione, nel consumo e nella riproduzione sociale. Occorre esplorare che cosa possa significare "diventare selvaggi" come pratica insurrezionale nel presente.
L'apparente mancanza di una natura specificamente umana è ciò che ha permesso agli esseri umani di essere addomesticati, di diventare degli esseri civilizzati, ma apre anche la possibilità di rivolta contro tale condizione,una rivolta che potrebbe distruggere questa condizione e trasformarci in qualcosa di nuovo - poiché le esperienze che abbiamo avuto come esseri civilizzati non spariranno semplicemente, ma influiranno su ciò che diventiamo. Perciò uno "stato selvaggio" post-civilizzazione non potrebbe essere un ritorno ad una condizione precivilizzata, ma un'esplorazione di nuovi modi di relazione con il mondo attorno a noi, libero dai limiti imposti dalle istituzioni comprese nella civilizzazione. Il suo pieno significato sarebbe compreso solo nel momento della sua creazione e cambierebbe di momento in momento attraverso i processi di interazione che determineranno il percorso di creazione. Lo stato selvaggio (wildness) non è la risposta all'insorgenza contro la totalità della civilizzazione, non è la soluzione definitiva alla quale un giorno arriveremo, ma piuttosto una questione, una tensione con cui lottare ogni giorno. La pratica dello stato selvaggio deve essere una sperimentazione perpetua che incorpora la creazione volontaria di ogni momento della propria vita e il rifiuto volontario, attraverso l'azione distruttiva, del dominio in ogni sua forma - e cioè dell'addomesticamento e della civilizzazione come la conosciamo noi. Tale sperimentazione ci trasformerà e trasformerà i nostri modi di interagire con il mondo.

giovedì 19 dicembre 2013

Nei tempi di errori e di giudizi

Non c'è movimento rivoluzionario che non porti in sè la volontà di un cambiamento totale, non ce n'è alcuno fino ad oggi che non abbia fatto la sua vittoria di un cambiamento di dettaglio. Dal momento in cui il popolo in armi rinuncia alla sua volontà per seguire quella dei suoi consiglieri, perde l'impiego della sua libertà e incorona, con l'ambiguo titolo di dirigenti rivoluzionari, i suoi oppressori di domani. In ciò consiste, in qualche sorta, l'astuzia del potere parcellare: esso genera delle rivoluzioni parcellari, scisse dal rovesciamento di prospettiva, separate dalla totalità; paradossalmente dissociate dal proletariato che le fa. Come protrebbe la totalità delle libertà rivendicate accontentarsi di qualche briciola delle libertà conquistate senza fare subito le spese di un regime totalitario? Si è creduto di vedervi una maledizione: la rivoluzione che divora i suoi figli: come se la sconfitta di Makhno, l'annientamento di Kronstadt, l'assassinio di Durruti non fossero già stati implicati dalla struttura dei nuclei bolscevichi iniziali, forse anche dai modi autoritari di Marx nella Prima Internazionale. Necessità storica e ragione di stato non sono che necessità e ragione dei dirigenti chiamati ad avallare il loro abbandono del progetto rivoluzionario, il loro abbandono della radicalità.
La nuova ondata insurrezionale riunisce oggi dei giovani che si sono tenuti lontani dalla politica specializzata, che sia di sinistra o di destra, o che vi sono passati rapidamente, il tempo di un errore di giudizio o di un'ignoranza scusabili. Nel maremoto nichilista, tutti i fiumi si confondono. Ciò che importa è solo l'al di là di questa confusione. La rivoluzione della vita quotidiana sarà la rivoluzione di quelli che, ritrovando con maggiore o minore facilità i germi di realizzazione totale conservati, contrastati, nascosti nelle ideologie di ogni genere, avranno per ciò stesso cessato di essere mistificati e mistificatori.

GUAI A CHI SMETTE GUAI A CHI CONTINUA

Partiamo dalla nostra vita: guardiamo al passato, facciamo un bilancio. È una storia, la nostra, che si è scritta per anni dentro le case collettive, i circoli, i luoghi di collettivizzazione che sempre si definivano come strutture di consumo di una ricchezza che veniva prodotta altrove. Abbiamo rimosso la durezza e la smisuratezza della necessità di produrre i beni necessari a riprodurre la vita. È stata la peste dell’irrazionalismo e dell’immediatismo. L’esproprio, forma di appropriazione di ricchezza si rivela poi miseria incapace di risolvere la contraddittorietà della merce: quella di essere vita cristallizzata, dunque cosa maledetta. Oggi la massa di tempo-di-vita lavorativo è là, un inconscio che appesta la nostra esistenza, che maledice i giorni e le notti delle nostre case, che riduce la collettivizzazione a marginalità subita. 
I migliori di noi sono quelli che questa massa di rimosso ha sommerso nella follia o nel carcere o nel suicidio o nell’eroina.
Guai a chi continua. Guai a chi smette.
Dobbiamo saperci liberare dall’irrazionalismo che abbiamo prodotto, dare forma produttiva al rifiuto del lavoro, scoprire il rigore e l’esattezza nei modi di riproduzione, nei rapporti interpersonali. Le case collettive sono state luoghi di appropriazione e di consuno di una ricchezza che continua ad essere merce. L’illegalità di massa, la devianza sono state possibilità di sopravvivenza ma hanno bruciato autonomia, creando una figura del movimento come puro consumo, dunque una figura sempre dipendente da un altro spazio, esterno al movimento, dallo spazio della ripetizione del modo di produzione capitalistico. È stato irresponsabile far del trionfalismo su tutto questo. Occorre oggi costruire una socialità che si misuri sul problema fondamentale: la possibilità della produzione senza lavoro. La possibilità, dunque, della liberazione della vita. Porre questo problema come proposta di una forma di esistenza cioè di organizzazione per tutta una fase forse vuol dire che il movimento deve assumere forma di un luogo di sperimentazione; la scrittura collettiva forma di simulazione di ordigni linguistici capaci di funzionare come prefigurazione e paradigma di altri sistemi semiotici produttivi di valori d’uso in cui lavoro umano sia soppresso.
Porre questo problema come proposta non vuol certo dire preparare ricette per la trattoria dell’avvenire, parlare di transizione, pensare che la liberazione debba attendere la trasformazione di tutta la società (quando al contrario solo la pratica di liberazione può innescare un processo intensivo di trasformazione).

Ma anzi, occorre liquidare l’idea della transizione, quest’ultimo baluardo della tradizione ideologica socialista, anche sul terreno della produzione. Chi ha detto che il capitalismo debba finire perché il comunismo possa vivere? Questo oggi lo diciamo avendo d’occhio anche il problema della produzione del necessario, all’interno di forme di socialità che escano dalla dominanza del modo di produzione fondato sul lavoro e sul sacrificio.

(A/traverso maggio 1978 nuova serie numero due. Bologna) 

VIOLENZA RIVOLUZIONARIA

Mentre la maggior parte di noi tenta di ottenere un'esistenza pacifica e armoniosa con i propri simili e con il resto delle vite, è importante riconoscere il contesto all'interno del quale noi viviamo attualmente. La maggior parte della popolazione mondiale vive in condizioni deplorevoli, non perché non è diventata civilizzata o modernizzata, ma perché è obbligata ad essere la manodopera del cosiddetto potere del primo mondo. Alcuni di noi vivono nel primo mondo soffrendone, con estrema alienazione, deterioramento fisico, distorsione psicologica, e vuoto spirituale, non ci sono dubbi che siamo tutti diretti in un percorso unidirezionale verso la sorte avversa. Inutile dire che ci troviamo indubitabilmente sull'orlo del collasso ecologico. Sapendo questo, è importante per noi prendere in mano la situazione e agire ora... poiché sappiamo che il tempo a disposizione è poco!
Nell'essere anarchici si è automaticamente rivoluzionari, o comunque atti a promuovere l'insurrezione a scopo di liberazione. Questo può avvenire in diverse forme, ma la riforma dei sistemi di dominazione non sono punti di vista anarchici. Mentre molte azioni anarchiche possono essere considerate non violente, non esiste limite da porre alla nostra resistenza. Come anarchici, dobbiamo rifiutare i limiti ideologici e filosofici mentre scegliamo come resistere. L'interazione fisica con l’autorità necessita di andare oltre la passività e i simboli. Infatti, molti anarchici adottano la violenza rivoluzionaria come reazione naturale e necessaria all'oppressione. Se noi guardiamo ovunque nel mondo naturale, osserviamo che l'auto-difesa fa parte dell’istinto umano. È importante mettere in discussione le limitazioni ideologiche che provengono da luoghi di estremo privilegio. Molte persone della Terra non hanno la possibilità di decidere quale sia la risposta più giusta alla dominazione, e spesso devono scegliere fra la vita e la morte. Non è questione di riflessione personale o di perfezionismo ideologico; è agire o morire. Questo non significa che tutto deve essere collegato alla resistenza violenta, ma piuttosto, sapendo che esiste, ammettere che è giustificata (in molte situazioni), e che non deve essere condannata. La violenza rivoluzionaria, nelle sue varie forme, è una risposta necessaria alla violenza istituzionale del sistema, ed è necessaria per la continuazione di tutte le forme di vita. Sì, noi dobbiamo guarire le ferite causate da questo pessimo viaggio che chiamiamo civilizzazione, ma il processo di guarigione può andare avanti soltanto se siamo capaci di fermare l'inflizione di queste ferite da parte degli oppressori. Perché siamo tutti sotto il tiro di un'arma e, dobbiamo rispondere con l'autodifesa e per la liberazione.

giovedì 12 dicembre 2013

L' apocalisse che non verrà

Tanto han gridato all'apocalisse che essa non verrà. E anche se venisse, del resto, ci vorrebbe del bello e del buono a distinguerla dalla sorte quotidiana riservata all'individuo come alla comunità.
Si può immaginare una danza macabra più a sinistra della guerra, della tortura, della tirannia, dell'incidente, della malattia, della noia, dei piaceri colpevoli e di questo godimento che si accanisce di più a tormentarsi che a dispiegarsi? La sopravvivenza non è forse ritagliata nella materia stessa dell'apocalisse?
La caduta dell'impero della merce non produrrà niente di più lamentevole della caduta nella disumanità che segna i suoi esordi. Ciò che è alla fine è anche all'inizio.
Una rovina nè nasconde un'altra: dietro il crollo del capitalismo monopolistico e di Stato viene meno l'intera civiltà mercantile, secondo un naufragio programmato da lunga data.
Le favole arcaiche che profetizzavano la morte degli dei in un annientamento universale si ricongiungono oggi nel pantheon della vita assente con l'Aurora nucleare, il macello della Gran Sera e della Notte mortifera in cui l'amarezza gira in tondo.
La fine dell'impero dell'economico non è la fine del mondo, ma la fine del suo dominio totalitario sul mondo. Tutti sanno, tuttavia, che una tirannia defunta continua ad uccidere. Non la gioia di vivere nè l'esuberanza creativa, bensì la paura è la risposta all'evidenza di una mutazione benefica. Una paura così intensa che l'economia moribonda vi scova ancora di che rifornire un mercato, il mercato dell'insicurezza, in cui il consumatore, ricondotto alla sua vera natura di minorato e di vegliardo, medica una muscolosa protezione per percorrere freneticamente i circuiti obbligati dell'edonismo consumabile.
Per la maggior parte delle persone esiste un solo terrore da cui tutti gli altri provengono, ed è quello di perdere l'ultima menzogna che li separa da se stessi, di dover creare la propria vita.

IL GIUDICE DISTRETTUALE di Edgar Lee Masters

Notate, viandanti, le profonde erosioni
che il vento e la pioggia mi hanno impresso sulla lapide –
come se una Nemesi o un odio intangibili
mi segnassero contro dei punti,
per distruggere, non per salvare, la mia memoria.
Ero in vita il Giudice distrettuale, uno che incideva tacche,
decidendo i casi sui punti che gli avvocati segnavano,
e non sulla giustizia del fatto.
O vento, o pioggia, lasciate in pace la mia lapide!
Perché peggio dell’ira di chi ha subito il torto,
peggio delle maledizioni dei poveri,
fu il giacermene senza parola, e vedere ben chiaro
che anche Hod Putt l’assassino,
impiccato per mia sentenza,
era, in confronto a me, un innocente. 

L’invenzione dell’ecologia

La parola ecologia compare nel 1806 con Haeckel, in tedesco, e nel 1874 in francese, mentre bisognerà aspettare il 1964 per il termine ecologista. Nel XIX secolo, il termine indica la disciplina che studia i rapporti tra gli essere viventi e i loro ambienti.
Charles Fourier (1772-1837) mette in relazione il modo di produzione industriale e la cattiva qualità degli alimenti, dei prodotti, dei cibi, delle bevande. Nel Nuovo Mondo industriale e societario, Fourier disserta sui cattivi alimenti che, presenti in grande quantità sulla tavola dei poveri, costituiscono dei veri e propri “veleni a lenta azione”. I cibi naturali sono scomparsi, distrutti dalla produzione delirante nel falso regime di Civiltà, in altre parole, un regime di produzione liberale. A causa del libero mercato, della tirannia degli intermediari, della passione per il lucro dei commercianti, non si trova più nulla di buono: vino, olio, latte, carne, verdure, acquavite, zucchero, caffè, farina, tutto è formattato dal mercato, per il mercato.
L’organizzazione capitalistica ha distrutto la qualità di ciò che gli uomini ingeriscono: ad esempio i vermicelli sono ridotti a “colla rancida” messa a punto affinché la massaia possa guadagnare tempo con pietanze facili da preparare, a buon mercato, ma immangiabili; le carni “rancide e infette” perché l’allevatore accelera le fasi di crescita dell’animale per immetterlo prima sul mercato e ricavarne un profitto più rapido; i pascoli inquinati dal letame che trasmette un sapore schifoso ai cibi ottenuti mediante l’erba e la terra; i vini adulterati con prodotti chimici; i raccolti, effettuati anzitempo, che immettono sul mercato frutta e verdura non ancora matura, immangiabile.
Fourier mette in relazione la qualità degli alimenti e la salute della popolazione. Ad esempio la sterilità, maggiore presso coloro che vivono in città e si nutrono di prodotti cattivi che non in quelli che vivono in campagna, ancora relativamente preservati da questa corsa ai prodotti infettati da parte del capitalismo produttivista moderno. Intuizione, dunque, dell’intossicazione, delle malattie, dei danni alla salute della popolazione causati dai cibi adulterati messi in circolazione da mercanti ossessionati dall’accrescimento dei propri benefici.
Solo i ricchi possono comprare prodotti di qualità, più rari e quindi più costosi e alla portata delle loro borse. I poveri, invece, muoiono di fame perché non hanno nulla da mangiare, o perché il poco che mangiano è adulterato, corrotto o rovinato dalla chimica, dal produttivismo esagerato e dalla corsa al guadagno.
La Civiltà distrugge il pianeta, Fourier parla esplicitamente del “deterioramento materiale del pianeta” ed elenca i sintomi: la temperatura si vizia rapidamente; gli eccessi climatici divengono abituali; alcune regioni vedono scomparire le loro colture ancestrali; la scomparsa delle mezze stagioni; la fine delle foreste; l’inaridimento delle sorgenti; lo scatenarsi degli uragani.
Chi si sognerebbe di affermare che si tratta di un bilancio dell’inizio del XIX secolo?

giovedì 5 dicembre 2013

COME POLLI IN BATTERIA

Il fine del processo di civilizzazione è quello di far perdere ad ogni individuo la capacità di saper disporre di se stesso. Oggi siamo tutti progressivamente privati delle nostre capacità di genere e messi di continuo alla mercé di una macchina o delle decisioni di uno specialista. In questo modo stiamo man mano perdendo l’utilizzo di funzioni vitali. Forse non ce ne rendiamo conto, ma nel mondo incivilito abbiamo perso l’uso dei piedi. Se ci togliamo le scarpe non siamo più in grado di muoverci … Forse non ce ne rendiamo conto, ma nel mondo incivilito non siamo più in grado di provvedere autonomamente alla nostra sussistenza: non riusciamo più a riconoscere una pozza d’acqua potabile da una inquinata; non riusciamo più a distinguere un fungo velenoso da uno commestibile; non siamo più in grado di proteggerci dal freddo, di difenderci da soli, di riconoscere bacche, radici e altri vegetali indispensabili al nostro nutrimento … Siamo insomma diventati dei disabili. Nel mondo incivilito siamo come dei polli in batteria: se si interrompe il flusso di mangime lo scenario è il collasso. E tanto più diventeremo dipendenti dal flusso di mangime, quanto più saremo costretti ad accettare le decisioni, le regole, gli abusi e le restrizioni di chi controlla e gestisce questo flusso. In altre parole tanto più diventeremo dipendenti dai ritrovati della tecnologia, dai diktat dell’economia, dalle astrazioni simboliche della cultura, dai processi controllati dalla Paura politica e dai principi strangolanti del Dominio, quanto più ci allontaneremo dalla capacità anche solo di immaginarlo un mondo diverso …  A forza di artificializzarci silenziosamente, di separarci con leggerezza dalla vita vissuta, di recitare la parte dei polli in batteria subordinando la realtà reale a quella virtuale, arriveremo a perdere anche solo la capacità di immaginarlo un mondo naturale nel quale tornare a vivere.
Quello che dobbiamo sempre ricordare che un’esistenza senza catene è la sola condizione compatibile con la vita umana e della Terra; la sola condizione in cui poter godere di un’esistenza libera e gratificante insieme e non contro gli altri.    

SENZA TETTO NÈ LEGGE di Agnès Varda

“Una ragazza vagabonda muore di freddo: è un fatto da inverno.
È stata una morte naturale? È una domanda da gendarmi.
Cosa si poteva afferrare di lei e come hanno reagito quelli che hanno incrociato il suo cammino? È il soggetto del mio film.”  (Agnès Varda) 
Ed ecco dunque a ritroso, la cronaca delle ultime settimane della diciottenne Monà, che stufa di fare la segretaria ha preso zaino e tenda e ha deciso di infischiarsene di tutto e di tutti andando vagabonda, in giubbotto di cuoio, per il Sud della Francia. Credendo nel mito della libertà assoluta, Monà si è trascinata da un luogo all’altro, ha mangiato la minestra delle suore, ha venduto un po’ del proprio sangue per comprarsi uno spinello. Senza documenti, affidandosi all’autostop, ha retto i morsi della fame e i rigori dell’inverno con l’insolenza e i lavoretti provvisori. Eccola lavare le macchine in un’officina e darsi senza emozioni al padrone, eccola ospite di un drogato, eccola ubriacare una vecchia per far dispetto ai nipoti, eccola ascoltare una predica d’un filosofo fattosi pastore. Monà prova a coltivare patate e vendere formaggi, ma preferisce rubacchiare, ascoltare canzoni e stare lontana dall’acqua e sapone. Nemmeno quando una botanica un po’ snob, divertita dai suoi modi selvaggi, le dà una mano, Monà non mette radici. Scappa nel bosco, dove è aggredita da pari suoi, e finisce in casa d’un operaio tunisino che le insegna a potare i vigneti. Ma per poco, perché gli stagionali marocchini la cacciano. E allora torna con i drogati, fin quando dei contadini mascherati rischiano di bruciarla durante una festa della vendemmia. Monà, stremata, si rimette in cammino per i sentieri della campagna, sempre più faticosamente, finché non cade in un fosso ai bordi di un campo si rannicchia, si addormenta e muore assiderata nella notte. 
Agnès Varda non spiega, mostra; non cerca lo spettacolo né si sofferma sui luoghi comuni della narrazione, è essenziale. Il suo personaggio, pieno di rabbia, non è raffinato né si salva, ma è tratteggiato nella sua dura nudità. Quello tra realtà e finzione è un equilibrio difficile che la regista affronta con uno sguardo “doppio” sulla realtà, tenero e crudele assieme, distaccato e partecipe, lucido e sensibile; uno sguardo mai indifferente, uno sguardo “politico”, calato nella realtà, in particolare quella delle donne e dell’emarginazione più in generale, uno sguardo anche provocatorio, a tratti scomodo, di accusa.

Lo spazio di Monà non è quello del margine né della contestazione né della rivolta. Monà costituisce il rifiuto radicale del mondo, è il rifiuto sociale e del naturale, la negazione totale di ogni metafisica e di ogni legge, l’intollerabilità di ogni compromesso. Diceva Agnès Varda di avere voluto stimolare, con questo film, una riflessione sull’idea di libertà: quella di Monà allora si configura come la ricerca della libertà assoluta, senza confini e senza padroni. Ma questa libertà coincide con l’idea della morte, poiché la stessa idea di esistenza presuppone il compromesso.



Immaginare reti di solidarietà, gratuità e reciprocità

Il debito è promessa di lavoro futuro, è sottoporsi alla certezza che domani dovrai lavorare di più per produrre di più. Insieme all’ideologia del lavoro è il principale meccanismo di asservimento a disposizione del sistema.
Il neoliberismo ancorché sconfitto dai fatti che sconfessano fede nei mercati e deregulation, continua a replicarsi, perché è principalemente un’ideologia politica che s’ammanta della retorica dell’efficienza economica. Il neoliberismo vuole escludere ogni alternativa al capitalismo, per dimostrare che è l’unico sistema possiibile. La crisi è la dimostrazione della sua insostenibilità economica.
Si esce da questa crisi con un controllo democratico sull’emissione di moneta. Oggi le banche centrali sono isolate ad arte dalla democrazia. Sono la roccaforte dell’1%, di quei banchieri internazionali che non hanno rispettato le regole e giocato d’azzardo precipitando tutti. Risultato: ai banchieri vanno triliardi, al 99% tagli e austerità. Paghiamo per chi si è già enormemente arricchito sulle nostre spalle negli ultimi trent’anni, da quando la moneta è diventata circolazione del debito.
Il movimento Occupy è un ritorno alla democrazia reale, radicale, diretta. Il sistema delle lobby ha legalizzato la corruzione ed espropriato le nazioni della democrazia. Occupy si è radicato in città grandi e piccole focalizzandosi su questioni di solidarietà e sopravvivenza concrete.
Vogliono farci credere che l’unica alternativa al fallimento del neoliberismo sia la catastrofe. Vogliono impedirci di immaginare un’altro sistema oltre il capitalismo. Ma il nostra compito è proprio questo: immaginare e sperimentare reti di promesse e impegni economici che si reggano su principi di solidarietà, gratuità e reciprocità, invece che di disuguaglianza e dominazione.
Oggi ci vuole un grande giubileo del debito, l’esatto opposto di chi vorrebbe moralizzare la crisi, addossando ai popoli la responsabilità di decenni di politiche economiche redistributive verso l’alto.