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giovedì 26 settembre 2013

La libertà di stampa

La libertà di stampa è stata e continua ad essere un’arma contro tutte le tirannie.
L’esercizio di tale libertà è oggi snaturato in modo particolare dai progressi tecnici della manipolazione di massa, della pubblicità, della propaganda, della comunicazione, dell’informazione, della spettacolarizzazione del vissuto, che mirano ad assettare al potere del denaro e al denaro del potere una coscienza svilita dalla paura e un pensiero votato all’indigenza e all’autocensura. Può essere restaurato soltanto dalla lotta per una società più umana.
Nato dal libero scambio e dalla libera circolazione dei beni e delle persone, la libertà d’espressione è oggi minacciata dallo stesso spirito mercantile che aveva presieduto alla sua nascita. Ciò che ieri l’apriva, oggi, a mano a mano che il cerchio del profitto asserraglia il mondo la chiude.
La lotta contro la tirannia, punto di forza della libertà di parola e di pensiero, è un’illusione se il cittadino non impara a individuare e a distinguere, nelle informazioni che ogni giorno gli bombardano occhi e orecchie, a quali intrighi d’interessi obbediscono o, quantomeno, come sono ordinate, governate, deformate.
Non possiamo ignorare che, seppure riversate alla rinfusa, esse ci vengono ammannite in un imballaggio mediatico. Occorre toglierle dall’involucro, vagliarle così come si scartano e si esaminano quei prodotti di consumo che a volte sono stati, che sono spesso e diventeranno rapidamente spazzatura. Infatti, una una volta effettuata la scelta, non c’è cosa sia che susciti attrazione, disgusto o indifferenza che non possa essere convertita, riciclata, trasformata per servire al benessere individuale e collettivo.
La libertà illimitata d’espressione non è un dato di fatto ma una continua conquista, che l’obbligo dell’obbedienza non ha molto favorito fino a oggi. Non esiste un uso buono o cattivo della libertà d’espressione, esiste soltanto un uso insufficiente di essa.

MANGIA I RICCHI Klasse Kriminale

Mangia i ricchi
O loro mangeranno te
Un giorno mangeremo i ricchi
Ma il terzo mondo avrà ancora fame
Qualcuno farà indigestione
Ad altri verrà la gotta
Cuoci un armatore
Bolli un petroliere
Voglio mangiare i ricchi
Per sfamare il mio odio
Mangia i ricchi
O loro mangeranno te
Meglio un ricco alla griglia
Che un Robin Hood in prigione
Mangia i ricchi
O loro mangeranno te
Voglio mangiare i ricchi
Per sfamare il mio odio
Sarà che non servirà  a niente
Ma forse mi sentirò meglio
MANGIA I RICCHI O LORO MANGERANNO TE ....
Meglio un ricco alla griglia
Che un Robin Hood in prigione
Cuoci un armartore
Bolli un petroliere...

COS’ È LA CIVILTÀ di Lev Tolstoj

La teologia medievale, o la corruzione morale, avvelenarono soltanto i loro popoli, cioè una piccola parte dell’umanità; oggi l’elettricità, le ferrovie e i telegrafi rovinano il mondo intero. Ognuno si appropria di queste cose. Semplicemente non può far a meno di farle proprie. Ognuno ne soffre nella stessa maniera, costretto in egual misura a cambiare il suo modo di vivere. Tutti si trovano nella necessità di tradire quel che è più importante nella loro vita, la comprensione della vita stessa, la religione. Macchine, e per produrre che cosa? Telegrafo, per trasmettere che cosa? Libri, giornali, e per diffondere qual genere di notizie? Ferrovie, per andare da chi e dove? Milioni di persone aggregate insieme e sottomesse ad un potere supremo, per far che cosa? Ospedali, medici, farmacie per prolungare la vita, e a qual fine? 
Quanto facilmente sia gli individui che nazioni intere prendono la loro cosiddetta civiltà per una vera civiltà; affinarsi con gli studi, avere le unghie pulite, andare dal sarto e dal barbiere, viaggiare all’estero, ed ecco fatto l’uomo civile. E per quanto riguarda le nazioni: quante più ferrovie è possibile, accademie, officine, navi, fortificazioni, giornali, libri, partiti, parlamenti. E così ecco fatta la nazione più civile.
 Dunque un numero abbastanza grande di individui, come pure di nazioni, può esser interessato alla civiltà, ma non al vero progresso. La prima è facile e incontra approvazione; il secondo chiede severi sforzi, e perciò presso la grande maggioranza non incontra altro che disprezzo e odio, poiché rivela la menzogna della civiltà. 

giovedì 19 settembre 2013

Il diritto e la legge sono sempre un dominio di Max Stirner

Non esiste una società senza diritto perché non esiste una società che non sia legittimata o che non tenda ad auto legittimare il dominio. Il diritto è lo spirito della società. se la società ha una volontà, questa è appunto il diritto: la società esiste solo grazie al diritto. Ma siccome esiste solo per il fatto che esercita un dominio sui singoli, il diritto non è che la volontà del dominatore. Anche la società politicamente più dispotica è sempre alla ricerca del diritto. Tutti i tipi di governo partono dal principio che tutto il diritto e tutto il potere appartengono al popolo preso nella sua collettività. Nessuno di essi, infatti, tralascia di richiamarsi alla collettività e il despota agisce e comanda “in nome del popolo” esattamente come il presidente o qualsiasi aristocrazia. Il diritto è una dimensione ineliminabile di ogni società umana, che si ritrova fondata su quel particolare rapporto di forza riassunto nella pre-potenza, cioè in un momento che esiste prima del costituirsi collettivo della società e in un ambito che sta fuori una volta che questa si è costituita.
Il diritto è dunque la legittimazione del dominio. Non di questo o quel determinato dominio, ma del dominio in quanto tale. Esso si pone in modo estraneo rispetto all’unico, in quanto per sua natura il diritto mi “viene concesso”. Che sia la natura o Dio o la decisione popolare, ecc., a concedermi un diritto, si tratta sempre di un diritto estraneo, di un diritto che non sono io a concedermi o a prendermi. Non è perciò la fonte del diritto a decidere la sua intima valenza di ratifica del dominio, ma il fatto che comunque esso è sempre un’entità che si pone sopra l’individuo. Per cui non può mai esistere una completa coincidenza tra il diritto e la volontà individuale, dal momento che ogni diritto è, per intrinseca definizione, una categoria particolare e ipostatizzata che si fissa in dimensione universale, mentre l’individuo è una dimensione unica, in sé irripetibile. Diritto storico, diritto naturale o diritto divino o qualsiasi altro diritto; il diritto di per se stesso non è in grado di risolvere i problemi dell’unicità posti al singolo.

LA FAMIGLIA

Il sorgere della proprietà privata, basata sulla divisione dei terreni, del bestiame, aggravata dalla metallurgia e da nuove divisioni del lavoro e degli oggetti prodotti dal lavoro, portò il passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale. L’uomo assunse il governo anche nella casa; la donna fu avvilita, asservita, divenne la schiava del suo piacere e un semplice strumento di riproduzione. L’uomo, che ormai era quello che accumulava ricchezza, voleva sapere con esattezza che i figli fossero i SUOI e non di un altro, per lasciare a loro l’eredità dei suoi beni. Ma per avere questa sicurezza non poteva fare che una cosa: schiavizzare la donna e imporle una castità e fedeltà coniugale rigorosa.
La famiglia è la cellula ideale di una società basata sul profitto, dove si dà all’operaio la possibilità materiale di vivere e quindi di produrre (garantita dal lavoro a tempo pieno e improduttivo della moglie) di far vivere i propri figli (anche questo sarebbe impossibile senza il lavoro della donna) e quindi riprodursi.
Il modello famigliare è ben preciso: il capofamiglia che procura i soldi, la moglie che fa funzionare la casa, i figli che consumano e basta. Tutto questo è determinato da una necessità economica imposta dall’organizzazione capitalistica della produzione in questa fase del suo sviluppo.
La donna diventa un angelo in scatola che le mura domestiche separano dal resto del mondo. Non avendo la possibilità di pagare dei servizi (asili, ecc.) il suo ruolo le si chiude addosso ed è costretta a svolgere funzioni prettamente domestiche: una statistica dice che in Italia le donne non rientrano a lavorare dopo la maternità, se non in numero ridottissimo.
E tu figlio, ti vedi programmato il tuo affetto, i tuoi rapporti umani per tenere bene in piedi un ferreo sfruttamento. Il movente economico è quello della società borghese, in cui il lavoro di molti deve servire a pochi per accumulare capitali.
Lavori alienanti, orribilmente pesanti, pericolosi, monotoni, da far fare alla classe sociale più povera, ricattata nella vita, perché deve mantenere una famiglia. Condizionata a produrre dei buoni cittadini perché non si renda conto della sua forza di massa, dell’ingiustizia subita ogni giorno, perché non si accorga e non si ribelli.
Ti senti dire da loro che se studi non farai la loro stessa fine, mentre studiare e farsi una posizione vuol dire mettersi in una condizione per cui è più difficile per il padrone poterti sfruttare.

(Tratto da: Manuale di autodifesa e di lotta per i minorenni CONTRO LA FAMIGLIA, Stampa Alternativa Roma 1974)

Sabotaggio di Emile Pouget

La parola «sabotaggio» fino a una quindicina di anni fa, era soltanto un termine di gergo indicante non l'atto di fare del sabotaggio ma quello, immaginoso ed espressivo, di azione compiuta «a scarpate». In seguito esso si è trasformato in una formula di lotta sociale ed è al Congresso Confederale di Tolosa, nel 1897, che ha ricevuto il battesimo sindacale. Il nuovo venuto non fu accolto, in un primo tempo, negli ambienti sindacali, con eccessivo entusiasmo. Alcuni lo vedevano assai di malocchio rimproverandogli le sue origini plebee, anarchiche. Ciò nonostante non bisogna pensare che la classe operaia abbia atteso, per praticare il sabotaggio, che questo tipo di lotta ricevesse la consacrazione dei Congressi Corporativi. Il sabotaggio come tutte le forme di rivolta e di lotta è vecchio quanto lo sfruttamento umano. Da quando un uomo ha avuto la criminale ingegnosità di trarre profitto dal lavoro di un suo simile, da quel giorno lo sfruttato ha cercato d'istinto di dare meno di quanto esigesse il suo padrone. È nel 1895 che, per la prima volta, in Francia troviamo traccia di una manifestazione teorica e cosciente di sabotaggio.
Il Sindacato Nazionale dei ferrovieri faceva allora una campagna contro un progetto di  legge — il progetto Merlin-Trarieux — che cercava di interdire ai ferrovieri il diritto al sindacato. Si pose la questione di rispondere alla votazione di questa legge con lo sciopero generale e a questo proposito Guérard, segretario del sindacato, e con questo titolo delegato al Congresso dell'Unione Federativa del Centro, pronunciò un discorso categorico e preciso: i ferrovieri non sarebbero indietreggiati davanti a nessun ostacolo per difendere la libertà sindacale e avrebbero saputo, all'occorrenza, rendere lo sciopero effettivo ricorrendo a certi metodi. A partire dal 1895 la spinta è data. Il sabotaggio, che era stato praticato dai lavoratori inconsciamente e istintivamente, riceve — sotto la denominazione popolare che gli viene data — la sua consacrazione teorica e prende posto tra i mezzi di lotta accertati, riconosciuti, approvati e preconizzati dalle organizzazioni sindacali.
I proletari si comportano come un popolo che, dovendo resistere all'invasione straniera e non sentendosi abbastanza forte per affrontare il nemico in battaglia campale, si lancia nella guerra di imboscata, di guerriglia. In effetti il sabotaggio è, nella guerra sociale, ciò che la guerriglia è nelle guerre nazionali: esso nasce dagli stessi sentimenti, risponde alle stesse necessità ed ha sulle mentalità operaia identiche conseguenze. Esaminando le modalità del sabotaggio operaio, abbiamo visto che, indipendentemente dalla forma e dal momento di applicazione, la sua caratteristica principale è quella di colpire il padrone nei profitti. Contro di esso, così com'è indirizzato a colpire soltanto i mezzi di sfruttamento, le cose inerti e senza vita, la borghesia non ha rimedi sufficienti. 


(Tratto da Le sabotage, Librairie Rivière 1911)

giovedì 12 settembre 2013

La fine della gerarchia

Al periodo preistorico della raccolta del cibo succede il periodo della caccia nel corso del quale si formano i clan cercando di aumentare le loro probabilità di sopravvivenza. Una tale epoca vede costituirsi e delimitarsi delle riserve e dei terreni di caccia sfruttati a profitto del gruppo e dai quali gli stranieri restano esclusi, interdizione tanto più assoluta in quanto su di essa poggia la salvezza di tutto il clan. In modo che la libertà ottenuta grazie ad una collocazione più confortevole nell’ambiente naturale, e il tempo stesso con una protezione più efficace contro i suoi rigori, genera a sua volta la propria negazione al di fuori dei limiti fissati dal clan e costringe il gruppo a limitare la sua attività lecita organizzando i rapporti con i gruppi esclusi che costituiscono una minaccia costante. Fin dalla sua apparizione, la sopravvivenza economica socialmente costituita postula l’esistenza di limiti, di restrizioni, di diritti contraddittori. Bisogna ricordarlo come si ripete l’abc, fino ad oggi il divenire storico non ha cessato di definirsi e di definire in funzione del movimento di appropriazione privativa, dell’assunzione da parte di una classe, di un gruppo, di una casta o di un individuo, di un potere generale di sopravvivenza economico – sociale la cui forma resta complessa, a partire dalla proprietà di una terra, di un territorio, di una fabbrica, di capitali, fino all’esercizio puro del potere sugli uomini (gerarchia). Al di là dell’opposizione contro i regimi che pongono il loro paradiso in un welfare – state cibernetico, appare la necessità di estendere la lotta contro uno stato di cose fondamentale e inizialmente naturale, nel cui movimento il capitalismo non gioca che un ruolo episodico, e che non scomparirà senza che scompaiano le ultime tracce del potere gerarchizzato, o i “cinghialetti dell’umanità”, ben inteso. 

PER LA SIGNORA DELLA PORTA ACCANTO di Goffredo Firmin

Ma lo ha (finalmente) capito, Signora,
lei che per le ataviche e non immotivate paure delle guerre,
anzi della Guerra, incubo dei nostri poveri destini,
si è comperata, accaparrata, imboscata
tanto di quello zucchero e di quelle patate che adesso (adesso)
è obbligata ad inventarsi di torte (dolcissime)
per figli e nipoti e cugini e parenti,
quantità di frittate omelettes tortillas (sempre alle patate)
giusto per svuotare un poco l’ingombra dispensa?
Lo ha capito che in verità, la verità vera degli uomini d’onore,
tutti hanno voluto e vogliono sempre e soltanto la pace?
I bagliori di guerra, i fulmini artificiali, i corpi devastati,
le facce (oh le facce!) dei guerrieri e dei prigionieri,
dei morti immobili e di quelli semoventi,
i carri armati come scarafaggi e le armi di Batman,
tutto questo Signora, era solo per la televisione,
insomma per noi.
O per sbarazzarsi del vecchiume, farla finita, e correre
Correre con il fiato in gola verso il Nuovo Mondo
(giusto giusto in tempo per il cinque centenario
- si dirà così? –
Della umanissima scopertissima dell’Americanissima),
per digerire assorbire il bene ed evacuare vomitare il male,
per lasciare tracce di forze vestite nella storia,
nella Storia di tutte le storie. 
O rianimare eccitare gli esangui Diritti dell’Uomo
(le donne e i bambini sono compresi:
si compra tre e si paga uno),
per far parlare un po’ tutti, generali e papi,
uomini della strada e dèi,
per giustificare spiegare quello che c’è e quello che manca,
per sfamare di notizie fresche un popolo triste
di ben sei miliardi (mica chiacchiere) di cittadini universali.
Per far aumentare le vendite sempre in crisi dei giornali
sempre in crisi sempre in crisi,
per far salire l’indice di ascolto tv, la audience (lei lo sa, Signora)
che, disgraziata, è sul filo, sempre col terrore del
telecomando.
È stato un gioco, Signora, è un gioco e lei c’è cascata.
In realtà tutti vogliono la pace, la pace, la pace,
quella vera, quella giusta, quella unica,
quella quieta e silenziosa che lei, Signora, conosce benissimo
tutte le domeniche e qualche volta anche il venerdì (se càpita).
Quella dolce pace che lei avverte quando – e quanto! –
porta gli allegri fiorellini (meglio quelli di campo) al fu
Antonio Domenico Pasquale Giuseppe Giovanni,
tutto tranquillo e silenzioso, lì, in pace, infine in pace
dopo un’intera vita (intera intera) spesa esemplarmente
come figlio studente fidanzato marito padre lavoratore morto
(ricorda quanto le sono costate quelle poche righe sul giornale
e la foto da metterci sopra che sembrava proprio lui?).
Non si preoccupi, Signora, abbia fede,
ci arriveremo tutti insieme, se non ci siamo già arrivati.
Spenga la televisione e accenda lo zucchero e le patate.
(Milano, marzo 1991)



  
  

La Libertà di Simone Weil

Si può intendere per libertà qualcosa di diverso dalla possibilità di ottenere senza sforzo ciò che piace. Esiste una concezione ben diversa della libertà, una concezione eroica che quella della saggezza comune. La libertà autentica non è definita da un rapporto tra il desiderio e la soddisfazione, ma da un rapporto fra il pensiero e l'azione; sarebbe completamente libero l'uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine. Poco importa che le azioni in se stesse siano agevoli o dolorose, e poco importa anche che esse siano coronate da successo; il dolore e la sconfitta possono rendere l'uomo sventurato, ma non possono umiliarlo finché è lui stesso a disporre della propria facoltà di agire. E disporre delle proprie azioni non significa affatto agire arbitrariamente; le azioni arbitrarie non derivano da alcun giudizio e, se vogliamo essere precisi, non possono essere chiamate libere. Ogni giudizio si applica a una situazione oggettiva, e di conseguenza ad un tessuto di necessità. L'uomo vivente non può in alcun caso evitare di essere incalzato da tutte le parti da una necessità assolutamente inflessibile; ma, poiché pensa, ha la facoltà di scegliere tra cedere ciecamente al pungolo con il quale essa lo incalza dal di fuori, oppure conformarsi alla raffigurazione interiore che egli se ne forgia; e in questo consiste l'opposizione tra servitù e libertà. 

giovedì 5 settembre 2013

NOI DICIAMO RIVOLUZIONE di BEATRIZ PRECIADO

Pare che i vecchi guru dell’Europa coloniale si stiano ostinando a voler spiegare agli attivisti dei movimenti Occupy, Indignados, handi-trans-froci-lesbiche-intersex e post-porn che non potremo fare la rivoluzione perché non abbiamo nessuna ideologia. Dicono «un’ideologia» esattamente come mia madre diceva «un marito». Bene: non abbiamo bisogno né di ideologie né di mariti. Noi, nuove femministe, non abbiamo bisogno di mariti perché non siamo donne. Così come non abbiamo bisogno d’ideologie perché non siamo un popolo. Né comunismo né liberalismo. Né ritornello catto-musulmano-ebraico. Parliamo un altro linguaggio. Loro dicono rappresentazione. Noi diciamo sperimentazione. Loro dicono identità. Noi diciamo moltitudine. Loro dicono controllare la banlieue. Noi diciamo meticciare la città. Loro dicono il debito. Noi diciamo cooperazione sessuale e interdipendenza somatica. Loro dicono capitale umano. Noi diciamo alleanza multi-specie. Loro dicono carne di cavallo. Noi diciamo saliamo in groppa ai cavalli per sfuggire insieme al macello globale. Loro dicono potere. Noi diciamo potenza. Loro dicono integrazione. Noi diciamo codice aperto. Loro dicono uomo-donna, Bianco-Nero, umano-animale, omosesessuale-eterosessuale, Israele-Palestina. Noi diciamo ma lo sai che il tuo apparato di produzione della verità non funziona più. Quanti Galileo saranno necessari, questa volta, per farci rimparare a nominare le cose e noi stessi? Loro ci fanno la guerra economica a colpi di machete digitale neo-liberale. Ma noi non piangeremo per la fine dello Stato-sociale – perché lo Stato-sociale era anche l’ospedale psichiatrico, il centro d’inserimento per handicappati, il carcere, la scuola patriarcale-coloniale-eterocentrata. È tempo di mettere Foucault alla dieta handi-queer e di scrivere la Morte della clinica. È tempo di invitare Marx a un atelier eco-sessuale. Non possiamo giocare lo Stato disciplinare contro il mercato neoliberale. Entrambi hanno già siglato un accordo: nella nuova Europa, il mercato è l’unica ragione di governo, lo Stato diventa un braccio punitivo la cui unica funzione è ormai di ricreare la finzione dell’identità nazionale sulla base della paura securitaria. Noi non vogliamo definirci né come lavoratori cognitivi né come consumatori farmaco-pornografici. Noi non siamo né Facebook, né Shell, né Nestlé, né Pfizer-Wyeth. Noi non vogliamo produrre francese, ma neanche europeo. Noi non vogliamo produrre. Noi siamo la rete viva decentralizzata. Noi rifiutiamo una cittadinanza definita dalla nostra forza di produzione, o dalla nostra forza di riproduzione. Noi vogliamo una cittadinanza totale definita dalla condivisione delle tecniche, dei fluidi, delle semenze, dell’acqua, dei saperi… Loro dicono la nuova guerra pulita verrà fatta con i droni. Noi vogliamo fare l’amore con i droni. La nostra insurrezione è la pace, l’affetto totale. Loro dicono crisi. Noi diciamo rivoluzione.

LUNA NERA di Louis Malle

 A bordo di una spider, una giovane donna Lily fugge da un mondo in cui gli uomini mettono a morte l’altro sesso, nella fuga uccide involontariamente un tasso che bruca sulla strada; assiste alla fucilazione di alcune soldatesse ed assiste ad altre efferatezze causate dalla guerra tra i due sessi in cui non si fanno prigionieri. La giovanissima Lily trova quindi rifugio in una grande casa isolata in mezzo al bosco. La casa è abitata da strani personaggi: una strana vecchia che parla con un topo e, via radio, chissà con chi; un gatto che suona il pianoforte; un ragazzo muto intento a potare alberi che sanguinano, e sua sorella, dal cui seno si nutre la vecchia; un liocorno parlante e bambini che giocano con un grosso maiale; margherite che piangono se calpestate.
Luna Nera di Louis Malle film fantastico, senza effetti speciali ma immerso meravigliosamente nel quotidiano in piena libertà espressiva e continua ricerca formale in una storia per niente lineare. Una versione aggiornata di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll in cui l’inconscio ed il sogno prendono il sopravvento.
Nella casa assistiamo ad una serie di incontri surreali: un unicorno, una vecchia signora che parla con un topo, due giovani, una ragazza e suo fratello legati da uno strano rapporto, un gatto che si interessa di musica, un maialino che mangia con dei bimbi nudi.  
Nella sua Luna Nera Malle non intende comunque offrirci una lettura freudiana della nostra realtà ma piuttosto, attraverso la sua protagonista Lily, un viaggio verso la scoperta del proprio equilibrio e la propria maturità sessuale. Non a caso tutte le donne del film si chiamano Lily e rappresentano le tre diverse età della stessa persona, dall’adolescenza alla maturità fino alla vecchiaia e di conseguenza alla morte.
Il regista crea un racconto ipnotico, più suggerito che mostrato, in cui le ossessioni di un periodo preciso, come il caos di una civiltà che non rispetta più i suoi valori e che anzi ne contesta le basi fondamentali. 
Un film girato negli anni 70 dove Malle con linguaggi diversi che vanno dalla psicanalisi alla metafora, frullando il tutto in chiave etico - politica, ci parla del malessere dell’adolescenza, di un mondo dominato dalla guerra e dalla civiltà avvolta nella merce.
Un testo cinematografico che non ha bisogno di essere letto o interpretato ma semplicemente vissuto e visto.
Praticamente muto, a parte le sequenze in cui si parla una lingua incomprensibile, e quella con il liocorno chiacchierone e filosofo. Luna Nera più che sogno - incubo è una favola senza morale dove angoscia e inquietudine si mescolano con un umorismo tutto cerebrale.




CLANDESTINO

Non sono umani, gli uomini neri, verdi e blu. Essi servono. Servono in molte guise. Servono, anzitutto in quanto uomini di colore. Che poi è il modo migliore di rendere il senso etimologico del termine “clandestino”, Clam-des-tinus. Ciò che sta nascosto al giorno, e odia la luce. Chi sta nell’ombra. L’uomo nero, invisibile, confuso nella notte, privo di figura, di contorni, di volto, di nome, di identità. Una grande massa oscura che viene designata nella sua paurosa alterità. L’uomo nero, eterna macchina da paura. Ed è questo il primo senso del servo: produrre paura. Di come la paura sia una formidabile risorsa politica hanno detto in tanti, e basti ricordare colui che ha pensato la sovranità politica moderna, Thomas Hobbes: l’uomo rinuncia volontariamente ai propri diritti nella misura in cui ha paura dell’altro uomo, fatto lupo. Più si crea l’immagine dell’altro in quanto mostro, tanto più l’individuo rinuncerà ai propri diritti – dunque a se stesso in quanto umano, propriamente – per avere salva la vita. Produrre paura è essenziale in tempi d’emergenza come questi, per il rapporto direttamente proporzionale tra paura e rinuncia dei diritti e rafforzamento del potere sovrano. Il sistema Spettacolare è lì anche per questo: produce fantasmi per natura, e quello dell’uomo nero è facile da produrre, è un effetto ottico di moltiplicazione. Basta parlare di immigrazione quando si parla di criminalità e il gioco è fatto, si crea un frame che resta inciso nelle reti neurali vita natural durante.
Ma quanto più gli immigrati vengono concepiti/prodotti in quanto uomini neri, tanto più vengono animalizzati e respinti ai margini dell’umano. Vengono resi, sempre di più, cose. E, in particolare macchine produttive. Il tipo ideale del lavoratore, da sempre desiderato da un sistema fondato esclusivamente sul profitto: in quanto invisibili, essi non hanno nulla da reclamare, da rivendicare, e possono essere usati esattamente come macchine.