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giovedì 29 novembre 2012

GLI INVENTORI DELLA NOSTRA VITA


La chiave di svolta è in ciascuno. Non ci sono istruzioni per l’uso. Quando avrete scelto di non riferirvi che a voi stessi, riderete al riferimento a un nome – il nostro, il vostro – a un giudizio, a una categoria, cesserete di imparentarvi a quella gente a cui il rimpianto astioso per non aver partecipato a un movimento della storia impedisce ancora di inventarsi una vita per se stessi.
Dipende solo da noi diventare gli inventori della nostra vita. Quanta energia gettata in questa vera fatica che è vivere in virtù degli altri, quando sarebbe sufficiente applicarla, per amore di sé, al compimento dell’essere incompiuto, del bambino chiuso dentro di noi.
A forza di snaturare ciò che pareva ancora naturale, la storia della merce tocca il punto dove bisogna deperire con essa, o ricreare una natura, una umanità totali. Sotto l’inversione dove il morto mangia il vivo, il soprassalto dell’autenticità abbozza una società dove il piacere va da se.
Il nostro godimento implica così la fine del lavoro, della costrizione, dello scambio, dell’intellettualità, del senso di colpa, della volontà di potenza. Non vediamo alcuna giustificazione se non economica alla sofferenza, alla separazione, agli imperativi, ai rimproveri, al potere. Nella nostra lotta per l’autonomia, c’è la lotta dei proletari contro la loro proletarizzazione crescente, la lotta degli individui contro la dittatura onnipresente della merce. L’irruzione della vita ha aperto la breccia nella vostra civilizzazione di morte.

LA VOGLIA DI RIDERE


Il potere, in ogni epoca passata e attuale, di qualunque colore sia; ci ha abituati a credere ai suoi ideologi ufficiali alle sue verità. Questo vecchio potere e questa vecchia verità avanzano pretese di assolutismo, non si accorgono della propria origine, dei propri limiti, della propria fine, del proprio volto vecchio e ridicolo e del carattere comico delle loro pretese di eternità e di immutabilità; non riescono a vedersi nello specchio del tempo. I rappresentati del potere e della verità recitano la loro parte con l’aspetto più serio, perché nella loro cultura la verità è ufficiale, autoritaria e si associa alla violenza, ai divieti, alle restrizioni. 
Il potere, la violenza, l’autorità non usano mai il linguaggio del riso …
Il riso non impone divieti né restrizioni, il riso è la vittoria sulla paura che incatena, opprime e offusca la coscienza delle persone. Il riso ha rivelato un mondo nuovo soprattutto nel suo aspetto gioioso, è rimasto sempre l’arma della libertà nelle mani dell’uomo/donna. Il riso, l’eterna contrapposizione della serietà. 
Sulla bocca del potere la società intimidisce, esige, vieta, opprime, terrorizza, incatena e mente.
Il riso non ha dogmi, non può essere autoritario, non è segno di paura, ma è coscienza di forza, è legato all’atto sessuale, alla fecondità, al mangiare, al bere, all’immortalità dell’uomo libero.
Si tratta quindi di insorgere nella pratica del rifiuto, spezzare la normalità rassegnata, prendere coscienza della diversità che pulsa, possedere se stessi ed essere posseduti dai propri desideri. Si muore si nasce nella stanza di sempre, ma la vita è altrove; dividersi dagli assenti, non significa propriamente solitudine ma voglia di mostrare i denti.

(Archivio Bodos: volantino 1986 Torino)

La necessità di spendere come base delle guerre


Sono gli ordini dell’Amministrazione stessa quelli che ora cerchiamo di sviscerare, e tra questi l’ordine attuale dello spreco di persone che sotto pretesti economici ci impartisce. Poiché se anche lo studente di economia meno esperto scopre oggi facilmente la irrazionalità e la stupidità dei conti e delle previsioni delle imprese, o private o statali, ciò non toglie che questi conti fungano da motivazioni serie e razionali delle operazioni belliche di spreco. In effetti non si tratta più, con le nostre guerre, di guadagnare (né terre per Stati né ricchezze per bottegai), ma di sprecare; ed è lo stesso sprecare ciò che sostiene la marcia della macchina economica (i guadagni degli imprenditori non sono più altro che alimento per farli cooperare al processo) e pertanto sostiene gli Stati. Così, chiudendo il ciclo, le nostre guerre tornano dal più progredito al più arcaico, e queste, in cui si cerca di consumare uomini e attrezzi per la pura necessità di consumarli, sembrano in qualche modo quelle primitive di cui si parla, quando la Guerra, ancor prima di essere rapina, era sport e sacrifico necessario. Che lo spreco debba quindi essere indifferentemente di persone o macchine, munizioni e vestiti non è che la cosa più logica: poiché gli uomini capaci di costruire continuamente aerei sempre più cari e bombe intelligenti e depositi di carburante col solo scopo di distruggerli (e tanto meglio quanto più in fretta) non possono essere che gli uomini la cui stessa ragione di essere sta nella stessa distruzione, e più vivi quanto più in fretta si consumano.
Così che una volta sostituite le vecchie cose e persone con la loro contabilità, si producano cose e persone che fin dall’inizio non hanno altro fondamento che quello di elementi di contabilità, e che così, sottomessi gli uomini alle loro stesse leggi di economia possa lo Stato tranquillamente procrearli, immagazzinarli e spenderli come procedimento per mantenere la sua stessa esistenza.

giovedì 22 novembre 2012

Punto zero, la capitale della distruzione


Questo punto è ancora battuto dai venti, nello spazio e nel tempo sociali. È il momento dove ognuno di noi realizza che il presente è privo di vita e tutto è schifosamente programmato, che non c’è molta vita nell’esistenza quotidiana di ognuno.
Deve essere sempre chiara la differenza tra sopravvivere e vivere.
Dobbiamo portare a termine un capovolgimento di prospettiva nella nostra vita e nel mondo. Niente deve essere giusto per noi, al di fuori dei nostri desideri, della nostra volontà di esistere.
Rifiutiamo ogni ideologia di potere legata alla macchina ed ai suoi addentellati, con le loro miserabili relazioni sociali cardine di questa ultramoderna società computerizzata a nuovo ordine mondiale: il sogno è di capovolgere questo paesaggio teatrale della merce feticcio, delle proiezioni mentali, delle separazioni e delle ideologie, arte, urbanistica, etica, cibernetica, alta velocità, spille da attaccare all’occhiello, stazioni radio o messaggi televisivi che dicono di amarti e detersivi che hanno compassione delle tue mani.
Ogni giorno la gente è privata di una vita autentica, ed in cambio le viene venduta la sua rappresentazione.
Perché non liberare una volta tanto ciò che nella maggior parte della giornata sentiamo continuamente dentro di noi, la spinta a distruggere il sistema che ogni giorno con mezzi diversi ci schiaccia il cervello? Bisogna far esplodere dal loro ruolo la nostra maniacale resistenza passiva, la rabbia soggettiva del suicida, i bamboccioni sul divano, l’omicida solitario, il teppista vandalo di strada, l’automobilista pirata, il neo-dadaista, il malato senza il letto, l’alienato di professione; in modo che tutti possano, che tutti possiamo partecipare alla distruzione come progetto rivoluzionario, per poter cambiare poi la sostanza stessa della nostra vita attraverso la trasformazione delle macerie rimaste.

SONS OF THE SILENT AGE di David Bowie


Figli dell’era silenziosa
I figli dell’era del silenzio
Stanno in piedi sul marciapiede
Con gli sguardi vuoti e senza libri
Stanno seduti in fila ai confini della città
giacciono sul letto
percorrendo le loro stanze che
hanno le dimensioni di una cella
si alzano per un anno o due e fanno la guerra
esplorano i loro pensieri di un pollice
poi decidono che non avrebbero dovuto farlo
Baby non ti lascerò andare
Tutto ciò che vedo è tutto ciò che so
Cerchiamo un’altra scappatoia
Baby non ti lascerò scendere
Non posso sopportare un altro rumore  
Cerchiamo un’altra maniera
I figli dell’era del silenzio
Ascoltano brani di Sam Therapy e King Dice
Nei bar ma piangono solo una volta
Fanno l’amore solo una volta ma
Sognano e sognano
Non camminano scivolano
Soltanto dentro e fuori la vita
Non moriranno mai, un giorno si addormenteranno

Scolarizzazione e mito sociale

L’istituzione scolastica al giorno d’oggi rappresenta una nuova religione inattaccabile e universalizzata, capace di preparare l'individuo a un consumo disciplinato, diventando così il maggior datore di lavoro della nostra società. Oggi la maggior parte degli uomini sono utilizzati nella produzione di richieste che possano essere soddisfatte da un'industria a forte intensità di capitale. La maggior parte di questa operazione si realizza all’interno del perimetro scolastico durante la scolarizzazione obbligatoria. La scolarizzazione serve efficacemente a creare/diffondere/difendere il mito sociale dato, essa é il rituale di fabbricazione del mito, un rituale su cui la società contemporanea costruisce se stessa. Ne deriva una società che crede nella conoscenza, nel confezionamento della conoscenza che crede nell'invecchiamento della conoscenza e nella necessita di aggiungere conoscenza alla conoscenza.
La conoscenza non come bene, ma come valore quindi concepita in termini commerciali: conoscenza come merce.
Gli ultimi 50 anni di scolarizzazione obbligatoria hanno creato nel mondo occidentale accaniti consumatori di merce e televisione.
E' stato dimostrato che non c'è nessuna connessione tra le materie che gli individui hanno studiato a scuola e l'efficienza degli stessi nei lavori che richiedono una preparazione in quelle materie.
La scolarizzazione è un investimento di capitale della società della merce che ha come fine il controllo sociale, la stratificazione e la creazione di una società di classe suddivisa in livelli.
Le scuole finiscono inevitabilmente a produrre un gran numero di emarginati, un numero limitato di successi e una netta preponderanza di fallimenti. Una sorta di lotteria dove quelli che non ce la fanno perdono non soltanto quello per cui hanno pagato, ma rimangono segnati per il resto della loro vita come individui inferiori.   

giovedì 15 novembre 2012

La gestione elettronica della società



La società gestita dai computer, fa suonare un campanello di allarme, in quanto contiene una chiara previsione del fatto che le macchine che scimmiottano gli esseri umani tendono ad infiltrarsi in ogni aspetto della vita delle persone e le costringono a comportarsi come macchine, I nuovi dispositivi elettronici hanno in verità il potere di costringere  le persone a “comunicare” con essi e con gli altri esseri umani nei termini dettati dalla macchina stessa. Ciò che strutturalmente non rientra nella logica della macchina viene filtrato, e in pratica scompare da una cultura dominata dal loro uso.
Il comportamento meccanico degli esseri umani incatenati all'elettronica corrisponde ad un deterioramento del loro benessere e della loro dignità, a lungo andare insopportabile per la maggior parte di essi. Le osservazioni sulla nocività degli ambienti elettronicamente programmati dimostrano che in essi le persone diventano indolenti, impotenti, narcisisti, e apolitiche. Il processo politico si deteriora perché la gente diviene incapace di governarsi e chiede di essere gestita.
La gestione elettronica della società è questione di ecologia politica. I dispositivi di gestione elettronica devono essere considerati come mutamento tecnico dell'ambiente umano che per essere innocuo deve essere affrontato in termini politici non solo tecnici. Non dobbiamo dimenticare che i dispositivi elettronici, i computer sono risorse produttive e in quanto tali necessitano di un regime di polizia, che sarà presente in forme sempre maggiori e in forme sempre più sottili. 

Aggressività: attacco e difesa


Ciò che normalmente si esprime come aggressività è una protesta distorta, inibita e canalizzata. Previene gli scontri aperti, è diretta contro noi stessi e, gradino per gradino, dall’alto in basso, giunge a porre l’operaio contro l’operaio. 
Le forme transitorie costituiscono delle scappatoie destinate a mascherare lo scontro di classe, a soffocare le contraddizioni, ad attizzare una piccola guerra tra gli sfruttati.
Finché noi giriamo intorno alle nostre difficoltà invece di attaccarle direttamente non cambia nulla. La parola aggressione viene dal latino “aggredi” = andare contro. L’SPK veniva spesso rimproverato da studenti di sinistra e simpatizzanti di essere aggressivo, ingenuo, ecc.
Questo rimprovero è indice dell’incapacità (dell’angoscia) di questi “gauchistes” a rompere con le convenzioni borghesi, al contrario essi si contornano di leaders, usano liste di oratori e forme ordinate di discussione. Riproducendo così nelle loro organizzazioni le strutture che vogliono combattere a livello di massa. 
In ogni lotta di liberazione si tratta per i combattenti, di trarre un principio affermativo dal loro ruolo forzato di oggetto. Così i malati, in quanto privi di diritto, hanno un diritto naturale all’autodifesa, cioè alla difesa dell’essenza vitale che resta loro, che è esposta agli assalti continui degli agenti di morte del capitale.
L’autodifesa non è fine a se stessa, ma è una strategia che conserva i resti dell’essenza vitale, la vita, per introdurla nella lotta di liberazione collettiva. In questo processo l’autodifesa comprende già il suo contrario, l’attacco come lotta collettiva sulla base della cooperazione e della solidarietà, nuovo metodo e nuovo fenomeno. La lotta collettiva è il nuovo fenomeno in cui l’opposizione dialettica tra attacco e difesa viene superata.
(Archivio storico: SPK fare della malattia un’arma 1971 Germania) 

L’ANARCHIA di Anselme Bellegarrigue


Chi dice anarchia, dice negazione del governo;
Chi dice negazione del governo, dice affermazione del popolo;
Chi dice affermazione del popolo, dice libertà individuale; 
Chi dice libertà individuale, dice sovranità di ciascuno;
Chi dice sovranità di ciascuno, dice eguaglianza;
Chi dice eguaglianza, dice solidarietà o fraternità;
Chi dice fraternità, dice ordine sociale;
Dunque chi dice anarchia, dice ordine sociale.
Al contrario:
Chi dice governo, dice negazione del popolo:
Chi dice negazione del popolo, dice affermazione dell’autorità politica;
Chi dice affermazione dell’autorità politica, dice dipendenza individuale;
Chi dice dipendenza individuale, dice supremazia di casta;
Chi dice supremazia di casta, dice disuguaglianza;
Chi dice disuguaglianza, dice antagonismo;
Chi dice antagonismo, dice guerra civile;
Dunque chi dice governo, dice guerra civile.
Non so se quanto ho appena detto sia nuovo o eccentrico, oppure spaventoso. Non lo so e nemmeno mi preoccupo di saperlo.
Ciò che so è che posso mettere liberamente in gioco i miei argomenti contro tutta la prosa del governativismo bianco e rosso passato, presente e futuro. La verità è che, su questo terreno, quello cioè di un uomo libero, estraneo all’ambizione, accanito nel suo lavoro, sdegnoso di comandare, ribelle alla sottomissione, sfido tutti gli argomenti del funzionalismo, tutti i logici dello stipendio e tutti i gazzettieri dell’imposta monarchica o repubblicana, che si chiami progressiva, proporzionale, fondiaria, capitalista, di rendita o di consumo.
Sì, l’anarchia è l’ordine; perché, il governo è la guerra civile.      
L’abnegazione è schiavitù, avvilimento, abiezione; è il re, è il governo, è la tirannia, è la lotta, è la guerra civile.
L’individualismo, al contrario, è l’affrancamento, la grandezza, la nobiltà; è l’uomo, è il popolo, è la libertà, è la fraternità, è l’ordine.


giovedì 8 novembre 2012

Sfidare la vera anima del capitalismo


Per almeno 5000 anni i movimenti popolari si sono concentrati sulle lotte per il “debito”. C'è una ragione per tutto questo: il debito è il mezzo più efficiente mai creato per mantenere relazioni fondamentalmente basate sulla violenza e su diseguaglianze violente, facendole sembrare giuste ed eticamente corrette. Quando il trucco non funziona più, esplode tutto. E quello che sta accadendo adesso. Il debito ha chiaramente dimostrato di essere il fattore di maggior debolezza del sistema, il punto in cui si perde il controllo e consente agli oppositori infinite opportunità di gestione. Si parla di sciopero del debito, di cartello dei debitori. Si potrebbe iniziare con garanzie  contro gli sfratti: di quartiere in quartiere, aiutandoci gli uni con gli altri. La forza della contrapposizione non sta solo nello sfidare i regimi del debito, ma nello sfidare la vera anima del capitalismo, la sua base morale, ora svelata da una serie di promesse tradite, per fare ciò occorre creare una nuova realtà.
Un debito è solo una promessa e il mondo di oggi è pieno di promesse che non sono state mantenute. 
Tutto questo sistema si sta sbriciolando. Quello che rimane è solo ciò che riusciamo a prometterci a vicenda, direttamente, senza la mediazione di burocrazie economiche e/o politiche. La rivoluzione inizia con il chiedersi: che tipo di promesse fanno gli uomini e le donne liberi e come possiamo costruire un mondo nuovo attraverso queste promesse? 

REVOLUTION SONG di Lance Henson


l’alba porta con sé il dolore della luce
di qualcuno che non vuole essere visto
una voce che deve essere nascosta
in un luogo
che non le appartiene
è un fiume o una brezza
o l’acqua che scorre e piange
di sé
che ti fa desiderare di essere libero ?
il canto proibito di un grillo
giace tra le rose
un vento aleggia intorno sussurrando di Che Guevara
e di Cavallo Pazzo
in un mattino di gelo
nel dolore del risveglio
il grido dell’umanità esce da sé
impossibile da fermare
come il gocciolio dell’acqua
come il pianto di un bambino

Alfred Jarry il sovversivo


“Guarda guarda la macchina girare,
guarda guarda il cervello saltare, 
guarda guarda il riccone tremare
Urrà, corna-in-culo, viva Ubù!”
 Alfred Jarry detto l’indiano, ama le inquietudini dell’esistente, le demoniache illuminazioni, le scienze occulte, l’araldica, la bicicletta, le rivoltelle. È lui che, con due pistole, durante uno spettacolo circense terrorizza i vicini nel tentativo di convincerli delle sue capacità di domatore. È sempre lui che in un giardino stappa bottiglie di champagne a pistolettate e che, alla madre imbufalita di due pargoletti che giocano lì accanto, risponde di non preoccuparsi in caso di decesso “ve ne faremo degli altri”. Una volta dopo aver sparato ad uno scultore reo, a suo dire, di avergli fatto proposte sconvenienti, si rivolge agli amici che lo trascinavano via dicendo: “Mica male come letteratura, vero?”. È il geniale inventore di re Ubù, l’incontinente, crudele, ingorda, proterva, vile, boriosa, tracotante e all’occorrenza schifosamente prona, simbolica incarnazione del potere.
Quando la commedia “Ubù re” viene rappresentata per la prima volta nel 1896 esplode l’entusiasmo e nasce un mito. Il senso eversivo ed anarchico della commedia, la critica delle istituzioni sono troppo simbolicamente vere per essere perdonate. Jarry è celebre, ma povero in canna. Nessuno vuole pubblicare o rappresentare cose sue. Sarà inevitabile per lui, che è ben lontano dall’accettare una vita incanalata nell’ordine della banalità, convivere con la miseria e la fame prima di morire in ospedale a 34 anni. Senza negarsi un ultimo sberleffo. In punto di morte, al medico che gli chiedeva se c’era qualche cosa che avrebbe potuto fargli piacere, risponde: “si, uno stuzzicadenti”.
le biciclette e le armi di Jarry


giovedì 1 novembre 2012

PROVIAMO A VIVERE SENZA OROLOGIO


L’immaginazione è l’arma più potente a nostra disposizione, e possiamo usarla nel miglior modo possibile applicandola alla trasformazione della realtà di tutti i giorni, anziché farne una rappresentazione simbolica.  Dobbiamo smettere di sacrificare il nostro lavoro per la produzione di massa, dobbiamo stare attenti alla qualità della vita, valutare le nostre azioni in termini di esperienza e non di risultati, perché sappiamo bene che il principio democratico del siamo tutti eguali  è una mistificazione bella e buona, imbastita dalle leggi della competizione. Ciò di cui necessitiamo ora è sperimentare un sistema nuovo nel quale tutti possano ricevere una quota di benessere equamente re-distribuita, proviamo a vivere senza orologio senza sincronizzare la nostra vita con il resto del mondo. 
Dall’esperienza rivoluzionaria anarchica dobbiamo imparare quanto nessuno sia più qualificato di noi stessi a decidere che cosà sarà della nostra vita, e la versione della realtà che offriamo è incompatibile per natura con i progetti di socialità imposti dal capitalismo nel mondo. L’anarchia ci spinge a desiderare un modello consensuale dove poter scegliere individualmente (e se necessario collettivamente) sul come gestire presente e futuro delle nostre esistenze, senza dover essere necessariamente costretti nelle leggi della domanda e dell’offerta. Prendendo per buono il valore della ricchezza, calcolata sulla quantità di persone e cose che controlla, il libero mercato ha seminato pregiudizi di razzismo ovunque, addomesticando ogni zona vitale con la scelta forzata del lavoro.
L’dea di società consensuale che immaginiamo è fondata su un’economia del dono, in cui il tempo del lavoro possa emanciparsi dalla produzione per riempirsi di libertà, gioco, pigrizia e divertimento. All'accumulare le risorse preferiamo la condivisione totale, al dare le nostre energie l’atto dello scambiarle, e se pensiamo all'amore come ultimo atto sovversivo nella nostra guerra è solo perché vediamo troppo odio in giro a governare il mondo.

Rivoluzione, anarchia e comunismo di Carlo Cafiero


Anarchia vuol dire assenza di potere, assenza di autorità, assenza di gerarchia, assenza di ordine prestabilito – ordine stabilito dai pochi o dai primi, che è legge per i molti o per i secondi.
È mai possibile essere libero quando si è sottoposto ad un potere o ad una autorità qualunque? Si può mai considerare libero quell’uomo che può ricevere un comando da un altro uomo? Dov’è mai la nostra libertà, quando noi siamo costretti dalla legge a conformarci ad un ordine prestabilito, il quale ci riesce già insopportabile per il solo fatto che ci è imposto? Un vero amico della libertà deve essere nemico di ogni potere, di ogni autorità, di ogni comando, di ogni elevazione di uomo al di sopra di altri uomini, deve essere nemico di ogni legge, di ogni ordine prestabilito, deve essere, in una parola, un anarchista.
La vera libertà non si otterrà che nell’anarchia, che è per conseguenza il primo termine necessario della rivoluzione. Oggi, l’anarchia vuole che si attacchi, si combatta e si distrugga lo stato, che è l’organismo di tutti i poteri costituiti: la grande macchina politica che opprime l’uomo assicurandone lo sfruttamento. Ma fatta tavola rasa di tutto l’ordine esistente, l’anarchia esige che s’impedisca ogni nuovo impianto di autorità, ogni nuova supremazia, ogni nuovo dispotismo, ogni impianto di nuovo stato.
Oggi l’anarchia ha un carattere aggressivo e distruttivo: domani avrà un carattere preservativo e protettivo. Oggi è rivoluzione diretta: domani rivoluzione indiretta, impedimento della reazione.
Domani abbattuti gli ostacoli, l’anarchia sarà solidarietà ed amore: libertà completa di tutti. Essa formerà l’ambiente necessario allo sviluppo della felicità umana, allo sviluppo della vera libertà e della vera uguaglianza, all’avvenimento ed allo stabilimento definitivo della rivoluzione fra gli uomini. Anarchia sarà domani libero e completo sviluppo dell’individuo, che spinto solamente dai suoi gusti, dalle sue tendenze e simpatie, si assocerà con gli altri nel gruppo, nella corporazione od associazione che dir si voglia, le quali alla loro volta si federeranno liberamente nel comune, come i comuni nella regione, le regioni nella nazione e le nazioni nell’umanità.   

LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI di George A. Romero


Barbra e suo fratello Johnny sono in un cimitero di campagna per rendere omaggio alla tomba del padre. Un uomo lentamente si avvicina e aggredisce la ragazza senza motivo. Johnny interviene, ma ha la peggio e muore. Barbra scappa e si ripara terrorizzata in una casa. Intanto altre strane figure sopraggiungono e circondano l’abitazione: sembrano in stato di trance e non emettono che soffusi lamenti. In casa si è rifugiato anche un giovane di colore, Ben, che sbarra tutte le porte e respinge un primo attacco degli aggressori. Poco dopo si scopre che nascosti in cantina sono sfuggiti al pericolo anche una giovane coppia di fidanzati, Tom e Judy, e un uomo di nome Harry Cooper con la moglie Helen e la figlia Karen. Grazie alle notizie diffuse dalla radio e dalla televisione, il gruppo scopre che gli aggressori non sono altro che morti tornati in vita, forse a causa delle radiazioni di una sonda proveniente da Venere. La televisione annuncia che per annientare i morti viventi occorre colpirli alla testa e poi bruciarli. La tensione e la mancanza di solidarietà fa si che uno ad uno muoiono tutti, meno il ragazzo di colore. Ben unico sopravvissuto, si barrica in cantina e si addormenta. Al mattino le squadre guidate dallo sceriffo McClelland arrivano fino alla casa sterminando tutti i morti viventi che incontrano. Ben sente i rumori e si affaccia alla finestra, ma viene scambiato per uno zombie e ucciso da un colpo di fucile alla testa.
Il film di Romero si propone come prodotto cinematografico originale e radicale. La dialettica tra l’interno (gli assediati) e l’esterno (gli zombie), si rivela più apparente che virtuale. Tra i vivi che stanno per morire e i morti viventi non c’è opposizione ma specularità. Il gruppo di uomini non si allea per respingere il pericolo, ma ripropone al suo interno una serie di conflitti sociali che si rivelano letali.
Sin da quando uscì nelle sale, critici e storici cinematografici videro ne La notte dei morti viventi un film sovversivo che opera una critica contro la società statunitense degli anni sessanta.
 E' un'opera che ha generato un’immane quantità d’interpretazioni sociologiche, nonostante Romero abbia sempre affermato che niente di tutto questo fosse minimamente voluto. È altresì indubbio che la pellicola abbia risentito del cambiamento culturale del tempo. Si può quindi leggere tra i fotogrammi una critica alla guerra, all’individualismo capitalista, alla libera diffusione delle armi, al razzismo e all’inutilità dello Stato.
La certezza della sacralità della famiglia Americana, si sgretola completamente alla vista di una figlia che uccide e divora i propri genitori; le incomprensioni tra Ben, l’unico personaggio di colore nel film, e gli altri componenti del gruppo, fanno capire che l’integrazione razziale è ancora ben lontana dal divenire una realtà; la legge e l’ordine vengono ben rappresentati da gruppi volontari decisi a farsi giustizia da soli; lo spettro della guerra del Vietnam rivive tra le bande armate che pattugliano i campi e sparano e bruciano tutto ciò che si para davanti al loro cammino.
La notte dei morti viventi è un immensa radicale critica della ragione viva e vegeta. I morti sembrano più che infastiditi dal fatto di essere scimmiottati  dai vivi, il cui ideale è diventato, con l’aumentare del benessere, uno stato di pura carcassa svuotata di senso e volontà, riempita di nevrotica propensione al consumo totale.