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lunedì 31 dicembre 2012

giovedì 27 dicembre 2012

L'UTOPIA CAPITALISTA


Secondo l'Utopia capitalista, il capitale contemporaneo - concentrato su scala mondiale  e dotato ormai di cervelli collettivi, identificati negli apparati statali e nei vertici tecno-burocratici - è in grado di dispiegare una propria strategia globale, fondata sulla cogestione e sul coinvolgimento dei dominati. La miseria e la brutalità evidenti, riservata alle parti del mondo non ancora toccate dal progresso tecnologico e ai ghetti interni dei “diversi”, sono esibite spettacolarmente come minaccia e ricatto, ma esclude all'interno del blocco capitalista avanzato. Rinunciando al colonialismo e alla guerra tra Stati nazionali, il capitale estende a tutti la partecipazione,  giungendo a sussumere l'interiorità stessa del popolo senza confine dei suoi schiavi.
Tutta la vita dei proletari, compreso il tempo libero dal lavoro, che in precedenza veniva semplicemente ignorato, diventa oggetto dello sfruttamento. Dal momento in cui il capitale riesce imporre compiutamente la socializzazione del credito - vendite a rate, mutui, cambiali etc. -, la compravendita della forza-lavoro conquista tutto lo spazio e tutto il tempo della sopravvivenza dei proletari: il salario serve per pagare la sopravvivenza dell'anno passato, acquistata a credito. Il proletariato si trasforma in medium dell'estrazione del plus valore nelle ore passate sul luogo di lavoro, mentre, per tutto il resto del tempo, le sue qualità, i suoi bisogni e desideri si trasformano in materia estrattiva. Il linguaggio della persuasione occulta diventa la coazione che trasforma tutti i bisogni umani in bisogni dell'apparato produttivo, capovolgendo la legge della domanda e dell'offerta. L'universo produttivo determina ogni momento della sopravvivenza del lavoratore-consumatore, agganciandolo alla catena merce-desiderio-sublimazione in ruoli e obblighi sociali. Nello stesso tempo, la scienza – accumulazione dei significati dell'esperienza di tutti – organizza lo spettacolo del regno delle macchine come regno dell'unica libertà possibile.

QUELLO CHE HAI Contropotere


E in un mondo senza fine
Senza un’ombra da dignità
E in un mondo senza essenza
In cui regna solo falsità
E in un mondo di miseria
Dove sopraffare è normalità
E in un mondo di catene
Dove manca solo, solo libertà
Il mio mondo sta morendo
Grida sete di libertà
Quello che hai non è solo una tua scelta!
Tutt’attorno è solo un sipario
Poche parole un’immagine perfetta
Nessun nemico troppo forte, nessun motivo per scappare
Quello che hai non è solo una tua scelta
Uno specchio frantumato
Una corsa che ti allontana
Nessun nemico troppo forte, nessun motivo per scappare
Suoni negli astri
Indomiti
Solchi in deviabili, specchi accecanti, riflessi di fiamme
Solo selvaggi in libertà
Quello che hai non è solo una tua scelta
Poche parole un’immagine perfetta
Non più filosofia, azione diretta
Suoni negli astri
Indomiti
Solchi in deviabili, specchi accecanti, riflessi di fiamme
Solo selvaggi in libertà


LA RIVOLUZIONE di Errico Malatesta


La rivoluzione è giudicata obbligatoria per il rapporto di forza esistente nella società. Le classi privilegiate non permetteranno di farsi spodestare dai loro privilegi, se non con un’azione violenta da parte dei subordinati, per cui noi crediamo che solo la rivoluzione violenta possa risolvere la questione sociale.
Poiché la rivoluzione non possiamo farla da soli, cioè non possiamo colle sole nostre forze attirare e spingere all’azione le grandi masse necessarie alla vittoria, e poiché anche aspettando un tempo illimitato le masse non potranno diventare anarchiche prima che la rivoluzione sia incominciata, e noi resteremo necessariamente una minoranza relativamente piccola fino al giorno in cui potremo cimentare le nostre idee nella pratica rivoluzionaria, negare il nostro concorso agli altri ed aspettare per agire di essere in grado di farlo da soli, sarebbe in pratica, e malgrado le parole grosse e i propositi radicali, un fare opera addormentatrice, ed impedire che si incominci colla scusa di volere con un salto arrivare di botto alla fine. Noi non vogliamo aspettare che le masse diventino anarchiche per fare la rivoluzione, tanto più che siamo convinti che esse non lo diventeranno mai se prima non si abbattono violentemente le istituzioni che le tengono in schiavitù. Credo che l’importante non sia il trionfo dei nostri piani, dei nostri progetti, delle nostre utopie, le quali del resto hanno bisogno della conferma dell’esperienza e possono essere dall’esperienza modificate, sviluppate ed adattate alle reali condizioni morali e materiali dell’epoca e del luogo. Ciò che più importa è che il popolo, gli uomini perdano gli istinti e le abitudini pecorili, che la millenaria schiavitù ha loro inspirate, ed apprendano a pensare ed agire liberamente. Ed è a questa grande opera di liberazione che gli anarchici debbono specialmente dedicarsi.
Insomma volontà, rivoluzione e libertà sono i tre momenti inseparabili di un unico processo, dove è chiaro che per arrivare all’ultimo termine bisogna partire dal primo dovendo passare per il secondo: senza volontà di fare la rivoluzione non vi è rottura rivoluzionaria, senza rottura rivoluzionaria non vi è libertà. 

giovedì 20 dicembre 2012

La società del dono


In un mondo sempre più artificiale, in cui l’umanità sembra ormai incapace di esprimere la sua volontà di vivere e di resistere a ciò che ne ostacola la felicità, urge una riscoperta dello spirito del dono per rovesciare la prospettiva di una sopravvivenza programmata per essere consumata contro natura. 
Il mostro dell’economia autonomizzata va urgentemente fermato e nessuno potrà farlo al nostro posto.
Al dogma della crescita economica comincia a opporsi il progetto di una decrescita piacevole e conviviale, tendente a ristabilire sul piano demografico, su quello dei consumi, su tutti i piani del vivente il predominio della qualità sulla quantità.
Sta a noi non ridurlo a un’ennesima morale di rinuncia. Non abbiamo niente da perdere se non una immensa insoddisfazione in una tragedia planetaria.
Abbiamo da esplorare la gioia di vivere al di fuori di qualsiasi sacrificio.
Non è una certezza, ma una scommessa, cui ogni istante siamo invitati a non rinunciare mai, che finalmente dalle ambiguità dell’apatia generale venga fuori una volontà di battersi per creare se stessi armonizzando la società col godimento di sé.
Niente ci impedirà di distinguere, all’ombra dei patiboli, delle prigioni, delle fabbriche, delle scuole, nella clandestinità delle città, la folla insolita di coloro che hanno vissuto e tentano di vivere in rottura con gli imperativi della sopravvivenza. Una tale folla è in ciascuno di noi. Basta sentirla al di sopra del vano gridio della morte.


IL CONSUMO COME IDENTITA' PERSONALE


L'inesauribile e inesorabile dispiegarsi della burocrazia amministrativa promuove la mercificazione totalizzante dell'esistente e genera cambiamenti antropologici profondi: configura la distribuzione geografica della popolazione, concentrandola nei centri industriali; aumenta i ritmi di produzione; inibisce prassi e formazioni sociali fondate sulla reciprocità, sul dono, sulla condivisione; annienta abilità secolari.  La raccolta di erbe e di legna, la coltivazione di un orto, la fermentazione casalinga del vino e la distillazione dei liquori, i saperi artigianali legati alla riparazione e al recupero e all'elaborazione di rimedi terapeutici naturali seguono una sorte analoga a quella della panificazione: diventano per buona parte delle persone semplicemente  impensabili. 
La logica del profitto è esponenziale: si nutre di aumento perenne della produzione e quindi delle vendite. La crescita dei consumi, alimentata ad arte richiede: primo, come abbiamo visto, l'estinzione della possibilità di soddisfare bisogni senza passare per il mercato; secondo, l'allargamento degli ambiti che vengono mercificati, sottraendoli dal controllo pubblico, e l'applicazione della logica mercantile a beni che non erano mai stati concettualizzati come merci (ad esempio, brevetto dei codici genetici); terzo, un continuo ricambio dei prodotti che devono, dopo l'acquisto, risultare velocemente inadeguati, vetusti, superati; quarto, la capacità di alimentare il senso di inadeguatezza, e quindi il desiderio, illudendo il consumatore che il mercato offra la soluzione; quinto, la frammentazione delle reti sociali e la promozione dell'individualismo, in modo da generare consumatori singoli, ognuno potenziale acquirente, e così inibire l'acquisto collettivo. Il ricorso al mercato, per pressoché ogni esigenza, viene reso indispensabile.
Il consumo sostituisce il lavoro come fonte  primaria di identità personale, rafforzando la sensazione  che nell'acquisto si possa sviluppare una specifica dimensione soggettiva legata ad un possesso individuale.

Tesi per la liberazione dal lavoro


1) L'ideologia del lavoro è lo stratagemma con cui la società repressiva riesce a ritardare il trapasso generalizzato già ora possibile ad una società senza classi e libera dalla schiavitù del lavoro. 
2) Il mercato mondiale nella sua ultima fase: lo scambio dei prodotti materiali sussiste solo come forma economica in via di superamento; la forma più evoluta ed ormai realizzata su scala planetaria è lo scambio di merci ideologiche. 
3) Le ideologie, fondamento dell'attuale ricchezza delle nazioni, sono le merci nella loro moderna versione: il loro valore è dato dal tempo di consenso che riescono a garantire. Esse sono la forma in cui si manifesta il capitale ed è attraverso esse che si esercita il potere. 
4) L'ideologia scambiata tra gli stati, quelli comunisti non esclusi, viene poi distribuita al minuto al proletariato per essere consumata. Viene imposta sotto forma di legge naturale: il lavoro come maledizione continua e la produzione come necessità ineluttabile. 
5) La logica del lavoro contiene però le condizioni per il suo totale superamento. Il capitale potrebbe oggi ridurre il tempo di lavoro della metà: le forze sedicenti rivoluzionarie includono nei loro obiettivi la riduzione progressiva del tempo di lavoro poiché rappresentano il dissenso concesso.
6) La produzione imposta di merci materiali ed il consumo imposto di merci ideologiche si identificano e il salariato occupa le sue 24 ore alternativamente nell'una o nell'altra forma. La giornata lavorativa è ormai di 24 ore: vita produttiva e vita quotidiana coincidono ormai per la loro miseria. 
7) Nessuna forma di lavoro salariato; sebbene l'una possa eliminare gli inconvenienti dell'altra, può eliminare gli inconvenienti del lavoro salariato stesso. Perciò è indispensabile che il pensiero si armi nelle strade. 
8) Nella rivolta proletaria di Reggio Calabria, come prima di Casetta e Battipaglia, ciò è avvenuto. Il proletariato si è costituito in teppa per lanciare la sua sfida cosciente all'incoscienza dell'ordine costituito. La solitudine del proletariato ed il volto osceno e ghignante delle sue insurrezioni lasciano costernati i suoi oppressori ed i suoi falsi protettori. 
9) Gli amici napoletani di Agostino ed i devastatori calabresi hanno chiarito, per l'ultima volta, che la nuova lotta spontanea comincia sotto l'aspetto criminale e che si lancia nella distruzione delle macchine del consumo permesso. 
10) Oggi a Reggio i motivi di rivolta sono definiti «futili». Infatti il proletariato non ha particolari motivi per ribellarsi poiché li ha tutti; non ha richieste particolari da rivolgere al potere poiché il suo obiettivo è la distruzione di ogni potere che non sia quello esercitato dai consigli proletari. 
11) I Consigli Proletari non chiederanno nulla di meno della distruzione di questa società, dell'abolizione del lavoro, dell'eliminazione violenta di ogni istituzione separata (scuole, fabbriche, prigioni, chiese; partiti, etc.) poiché esisterà il potere decisionale di ciascuno nel potere unitario ed assoluto dei Consigli. 
12) I Consigli Proletari non saranno nient'altro che l'inizio della costruzione da parte di tutti della vita libera e felice oggi relegata nei desideri e nei sogni prodotti dall'infelicità dell'attuale sopravvivenza. 
13) Proletari coscienti, che la maledizione del lavoro sia maledetta, che l'ineluttabilità della produzione diventi il suo lutto.

( Archivio storico: tratto da Acheronte Ottobre 1970 Torino)

giovedì 13 dicembre 2012

L'ETA' DELLE PROFESSIONI

L’età delle professioni sarà da ricordare come l’epoca nella quale dei politici un po’ rimbambiti, in nome degli elettori, guidati da professori, affidavano ai tecnocrati il potere di legiferare sui bisogni: diventando succubi di oligarchie monopolistiche che imponevano gli strumenti con i quali tali esigenze dovevano essere soddisfatte.
Sarà ricordata come l’era della scolarizzazione, in cui alle persone per un terzo della loro vita venivano imposti i bisogni di apprendimento ed erano addestrate ad accumulare ulteriori bisogni, cosicché, per gli altri due terzi della loro vita, divenivano clienti di prestigiosi “pusher” che forgiavano le loro abitudini.
Sarà ricordata come l’era nella quale dedicarsi a viaggi ricreativi significava andare in giro intruppati a guardare la gente con l’aria imbambolata, e fare l’amore significava adattarsi ai ruoli sessuali indicati da professionisti  “sessuologi”. L’epoca  in cui le opinioni delle persone erano una replica dell’ultimo talk show televisivo e alle elezioni il loro voto serviva a premiare imbonitori e venditori perché potessero fare meglio i comodi propri.
Verrà ricordata come l’epoca nella quale un’intera generazione se ne andò alla ricerca frenetica di un benessere che impoverisce, dove tutte le libertà umane furono svendute, ad un totalitarismo “bonario” e ad un “tecno fascismo”.
Solo se comprendiamo il modo in cui la dipendenza dalle merci ha legittimato le domande, le ha trasformate in bisogni urgenti ed esasperati mentre contemporaneamente ha distrutto la capacità delle persone di provvedere a se stesse, noi potremmo evitare di avanzare verso una nuova epoca buia nella quale una auto indulgenza edonista sarà scambiata per la forma più alta di indipendenza.
Soltanto se la nostra cultura, già così intensamente mercificata, verrà sistematicamente messa di fronte alla sorgente profonda di tutte le sue connaturate frustrazioni,  potremmo sperare di interrompere l’attuale perversione della ricerca scientifica, le sempre più forti preoccupazioni ecologiche e la stessa lotta di classe, per il fatto che queste istanze stesse sono al momento principalmente al servizio di una crescente schiavitù degli individui nei confronti delle merci.

UN FUOCO DI ORIGINE SCONOSCIUTA di Patricia Lee Smith


sei dispiaciuto
forse dovrei fermarmi
essere te

un fuoco di origine sconosciuta
ha portato via la mia bambina
un fuoco di origine sconosciuta
ha portato via la mia bambina
l’ha scopata su e via
la mia lunghezza d’onda
l’ho inghiottita come l’oceano
in un fuoco spesso e grigio

la morte viene maestosa per il corridoio
come il vestito di una donna
la morte viene cavalcando
giù per l’autostrada
nel suo migliore vestito della domenica

la morte viene gridando
la morte viene strisciando
la morte viene
non posso far niente
la morte va
ci deve essere qualcosa che rimane
la morte mi ha nauseato e fatto impazzire
perché quel fuoco
ha portato la mia bambina
via

mi ha lasciato tutto
mi ha lasciato tutte le sue cose.

L'età comunale di Petr A. Kropotkin


Secondo Kropotkin, se si osserva la genesi dell’età medievale si potrà agevolmente constatare la sostanziale identità dello spirito societario presente nella formazione dei Comuni. Si potrà altresì accertare la creatività popolare sotto il segno di una fiorente spontaneità comunitaria che pervase tutte le istituzioni cittadine. Le città, infatti, non furono organizzate secondo un piano prestabilito, per volontà esterna di un legislatore, fosse questi un capo militare, un politico o un religioso. Nacquero e si svilupparono, invece, in perfetta autonomia le une dalle altre, e ciò spiega la grande diversità di forme che le attraversa. E tuttavia queste creazioni indipendenti non possono nascondere l’universale tendenza dell’umanità che si palesa, ad esempio, nelle comuni istituzioni, dalle assemblee di popolo al defensor civitatis,  dalle corporazioni di mestiere alle organizzazioni di sussistenza. In esse è sempre operante una sostanziale identità d’origine, tanto che si può parlare delle città del medioevo come di una fase ben definita della storia dell’uomo.
L’età comunale raffigura, in generale, un modello societario fondato sull’autonomia e sulla decentralizzazione. Testimonia un epoca di libertà e creatività popolare, di autonoma iniziativa individuale e di spontanea edificazione collettiva, premesse fondamentali per una democrazia dal basso e per un esercizio effettivo del potere da parte del popolo. Lo stesso sentimento nazionale, inteso come senso di appartenenza organica ad una comunità etnica e culturale, nasce dalla libera federazione della città e dei Comuni. Non è il potere della spada secondo Kropotkin, a fondare la nazione, ma la spontanea coesione culturale sedimentatasi nel corso dei secoli. Ugualmente non sono le grandi personalità politiche, militari e religiose a costituire la linfa vitale della storia, la sua ricorrente fecondità creativa, ma, al contrario, le masse anonime popolari che con le loro migliaia di atti quotidiani di concreta e spontanea solidarietà collettiva contribuirono alla costruzione societaria, a stratificare, cioè, nel corso dei secoli, quella civiltà selezionata di pratiche, di consuetudini e di saperi che globalmente costituiscono il working in progress della perfettibilità umana.  

giovedì 6 dicembre 2012

L’economia come disarmonia e conflitto


Non c’è un tempo, non c’è un luogo, un’esperienza umana dove la supremazia dell’economia abbia mai prodotto alcuna soluzione globale. L’economia al posto di comando significa inesorabilmente disarmonia e conflitto, perché ogni volta che essa funziona, funziona soltanto per un settore o per una parte (se poi non funziona non funziona per nessuno se non per LORO). Bilanci, fatturati, e indici di produzione appartengono a una grande bugia, perché nel mondo sottomesso all’economia, in testa a tutte le classifiche c’è la produzione di infelicità. Questa è la merce definitiva, il prodotto dei prodotti.
Perché l’economia non domina soltanto l’esistenza sociale, ma è scivolata ben dentro le menti, i comportamenti, le relazioni personali: guadagno, risparmio, investimenti, ricavi e costi, sono categorie che l’umanità è arrivata ad applicare a ogni circostanza; in questo senso l’economia è la più diffusa e micidiale delle sostanze inquinanti, la vera droga pesante con miliardi di tossicodipendenti. Il prezzo antropologico che l’umanità paga per qualche dose/bustina di benessere economico è lo sterminio e la depressione delle ricchezze vitali.
Non è certo nelle mani degli economisti che c’è un futuro per l’economia. Perché come tutti coloro che pretendono di seguire una fredda oggettività, gli economisti costruiscono una disciplina estranea alla ricchezza vitale. E ormai sempre più una disciplina separata, specializzata, freddamente oggettiva e razionale, non è soltanto odiosa, è anche profondamente stupida.
Alleggerire l’economia da ogni primato e da ogni privilegio è il solo modo per riservarle una possibilità di salvezza (sempre se vale la pena salvarla).
È in una dimensione di ricerca globale di nuove forme di vita, che ci potrà essere una terapia per l’economia. Alla borsa, nelle banche e nelle menti andrebbe messo un cartello con scritto: senza espansione della felicità niente sviluppo economico.

LA DECIMA VITTIMA di Elio Petri


In un futuro indeterminato, poiché le guerre sono state abolite, per dare sfogo agli istinti aggressivi dell'individuo è ufficialmente ammessa la caccia all'uomo. Basta far parte di un club internazionale ed assoggettarsi a certe semplici regole che fanno d'ogni membro, di volta in volta, un cacciatore o una preda. I superstiti di dieci "partite di caccia", che sono pochissimi, hanno diritto ad onori trionfali. Caroline, un'americana alla sua nona vittoriosa esperienza, parte per Roma dove vive la sua ultima preda, Marcello, un uomo impegolato in debiti, annoiato da una moglie avida e da un'amante querula. Intende ucciderlo durante uno spettacolo televisivo, allestito appositamente da una compagnia di pubblicità americana presso il Tempio di Venere. Marcello non tarda pero a scoprire l'identità e le intenzioni di Caroline e, avvalendosi dei diritti riconosciutigli dal regolamento, progetta a sua volta di sbarazzarsi della sua cacciatrice nel corso d'un altro trattenimento pubblicitario. Fra un attentato e l'altro, nasce però l'amore, e, schivando gli spari della moglie e dell'amante, ugualmente tradite, cacciatrice e preda si rifugiano insieme su un aereo, dove Marcello non ha altra alternativa che quella di sposare il suo mancato carnefice. 
Se si escludono le derive da commedia romantica, La decima vittima è un concentrato di ironia e perspicacia visionaria con pochi eguali nel panorama cinematografico mondiale. Anziani da consegnare alle autorità, bordelli chiamati camere di relax, party a base di strip e omicidi in diretta. Il film è del '67, ma potrebbe essere un documentario contemporaneo sui vizi della nostra società. E non solo perché il futuro ipotizzato nel film è così simile alla realtà quotidiana che ci si presenta davanti ogni giorno, ma anche grazie al linguaggio utilizzato dai protagonisti, dritto e tagliente.
Tratto dal racconto di Robert Shecklev “The Seventh Victim” Elio Petri imbastisce una vicenda di fantasia per imbastire una denuncia contro il sistema capitalistico, la società della merce e contro l'invadenza dei mass media: gli uomini sono assimilati a merci di consumo, facilmente sostituibili, ed il loro ruolo sociale è circoscritto all'occasione di uno spettacolo di massa. 
Il tema affrontato con pungente sarcasmo e ironia è quello della violenza nella società umana. La società di cui si narra è una società che non rifiuta la violenza in toto, ma che ha deciso di incanalarla con mezzi legali, dando vita ad un assurdo gioco a livello mondiale chiamato La grande caccia. Per necessità finanziarie e solo per dare sfogo alla parte violenta ed egoistica che alberga nell'uomo, liberamente gli individui decidono di partecipare a questo gioco, organizzato da un ministero apposito, il gioco prevede l'eliminazione fisica dei propri rivali. Il concorrente è alternativamente cacciatore e preda e alla fine delle dieci cacce chi sopravviverà verrà idolatrato come un dio e avrà una sorta di intangibilità nonché favori e premi. L'agire violento viene legalizzato e la morte ridotta a gioco, con tanto di sponsor, ghiotta occasione per incrementare le proprie vendite, dato che l'evento è ripreso dalle televisioni di tutto il mondo. Somma ironia la sede centrale della grande caccia, dove si estraggono a sorte le coppie cacciatore-preda è Ginevra (attualmente una delle sedi principali dell'ONU). Il film è influenzato nella parte scenografica dalla pop art e in genere dalla cultura degli anni '60, la fotografia ha la tendenza a riprendere l'impianto della fumettistica e a trasporlo in immagini in movimento.


Vietato vietare


Il grado di invadenza del governo occidentale contemporaneo probabilmente non trova uguali, per quantità di ambiti e meticolosità della prescrizione. Mai nella storia dell’umanità sono stati regolamentati in maniera così vincolante i comportamenti degli uomini
Non si può esercitare qualsiasi commercio senza autorizzazione. Sono stati vietati certi giochi di carte. Sono stati vietati innumerevoli alimenti di produzione casalinga o artigianale, ad esempio, sono stati regolamentati in maniera restrittiva i fermenti lattici utilizzabili per fare il formaggio. In diverse città le norme urbanistiche ti costringono scegliere il colore delle persiane. C’è l’obbligo per ogni cittadino di frequentare la scuola; non si tratta qui di discutere sulla bontà del processo di alfabetizzazione ma del fatto che questo venga obbligatoriamente imposto nella forma scolastica. Vaccinare i figli è indispensabile, anche per malattie oggi praticamente inesistenti. Ogni spazio  pubblico o  privato, è stato sottoposto a una sterminata, capillare, ossessionante serie di vincoli e certificazioni. È proibita la coltivazione e il consumo di marijuana. Per molti cittadini del mondo non è più possibile spostarsi liberamente. Non si possono più raccogliere castagne o legna secca per riscaldarsi perché a tutto è stata assegnata una proprietà. Per raccogliere i funghi è richiesta una autorizzazione. Non si possono cantare canzoni in pubblico perché protette dai diritti d’autore. Non si possono fare fotocopie di libri. In diversi luoghi non si può dormire all’aperto e non si possono fare fuochi. Non ci si può riposare orizzontalmente su panchine. Non si può distillare la grappa o piantare una vigna senza prima pagare per una autorizzazione. 
Si potrebbe proseguire per pagine. Considerato che viviamo nell’auto-proclamata società della libertà, la lista di ciò che non si può fare, almeno legalmente, è davvero lunga. La maggior parte sono attività che l’umanità, nei secoli, ha sempre svolto senza pensare che potessero essere rese illegali. 
Questo insieme di divieti rende, di fatto, criminosi certi stili di vita, che pur non danneggiano nessuno, se non gli interessi della burocrazia e del mercato. Si tratta di prevaricazioni che, evocando la tutela dei cittadini, permettono allo Stato di ergersi a censore di prassi difformi da quelle prevalenti:  lo Stato moderno viola tutti gli ambiti della vita, in modo da rendere virtualmente impossibile ignorare o sottrarsi alla sua influenza. L’estensione dei divieti è tuttora in corso, in fase di accelerazione. senza una reale distinzione di schieramento politico, vengono promulgate ordinanze locali che assoggettano vissuti, limitano libertà e spingono, sempre più, a dipendere dal mercato, vietando forme aggregative, ludiche e di sussistenza. Questa moltiplicazione di normative sembrano avere due principali finalità: a - implementare nuovi e più repressivi codici estetici e di decenza in un processo di musealizzazione degli ambienti; b - estinguere la possibilità di una socialità (giocare, riposarsi, mangiare, bere, dormire, amoreggiare, chiacchierare, commerciare, lavorare) gratuita per incanalarla in spazi appositi, a pagamento. Da una parte voto/delego dall’altra lavoro/guadagno/pago/consumo.